Io sono nessuno: il testimone del caso Livatino si racconta in un libro
Titolo: "Io sono nessuno". Sottotitolo: "Da quando sono diventato il testimone di giustizia del caso Livatino". Piero Nava rivela in questo libro come la sua esistenza sia stata sconvolta dalla decisione di testimoniare contro gli autori dell'omicidio del giudice assassinato dalla Stidda. E perché, anche adesso, rifarebbe la stessa scelta
Piero Nava, un agente di commercio lombardo, incrociò gli assassini del giudice Rosario Livatino mentre era in Sicilia per lavoro. Chiamò la polizia, raccontò tutto e portò avanti la sua scelta, pagando un prezzo enorme. Trent’anni di vita “clandestina”, raccontati in un libro.
Si presenta con un nome che non è il suo, l’ultimo di troppi. Abita in una località sconosciuta, forse all’estero o forse no, arrivato al sesto o settimo trasloco forzato. Si è sposato in segreto, senza invitati, e non ha partecipato al matrimonio della figlia. Nelle interviste tv si fa oscurare il viso, modificare la voce, camuffare l’aspetto. E, trent’anni dopo, il fu Piero Nava a volte ha ancora paura.
Tutto questo, e molto altro, è raccontato nel libro-autobiografia “Io sono nessuno. Da quando sono diventato il testimone di giustizia del caso Livatino” (336 pagine, curato per Rizzoli da tre giovani giornalisti lecchesi, Lorenzo Bonini, Stefano Scaccabarozzi e Paolo Valsecchi, con la prefazione della ex presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi).
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L’omicidio Livatino e la testimonianza
La mattina del 21 settembre 1990 Piero Nava era in Sicilia per lavoro. Poco prima delle 9 incrociò casualmente gli assassini del giudice Rosario Livatino, mentre passava in macchina dal luogo scelto dai sicari della Stidda per braccare e uccidere il magistrato scomodo, un rettilineo in fondo alla statale 640 Caltanissetta-Agrigento, in contrada Gasena.
Gli venne naturale dare l’allarme. Chiamò la polizia, prima di sapere chi fosse la vittima di quello che sembrava uno strano incidente provocato da un ragazzotto con una pistola e prima di realizzare che cosa avrebbe rischiato lui, raccontando la scena e descrivendo i protagonisti.
Si mise a disposizione per contribuire alle indagini. Poi non si tirò più indietro. Tenne testa a chi doveva saggiare la sua attendibilità (in primis Giovanni Falcone e poi gli avvocati difensori degli assassini), riconobbe i sicari in Germania e in Italia, testimoniò in aula. Obbedì (e disobbedì) ai funzionari di polizia chiamati a occuparsi della sua incolumità, improvvisando soluzioni e ripieghi, perché a quei tempi non c’erano garanzie né procedure standardizzate.
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“Io sono nessuno”: dopo la denuncia, una vita da latitante
Il prezzo pagato è stato ed è senza misura sul piano umano, professionale, emotivo, economico, sociale. La libertà menomata. Per il fu Pietro Nava, e famiglia, niente è stato più come prima.
La decisione di testimoniare e rischiare la vita ha spazzato via sogni e progetti, il futuro immaginato per sé, la compagna di quel periodo e due figli piccoli. Ha perso casa, lavoro, affetti, proprietà, legami, stabilità, serenità, punti di riferimento. Ha perso la donna che a lungo gli era stata a fianco. Ha vissuto e vive come un fantasma e un latitante, in perenne allerta. E non si sente al sicuro, nonostante siano trascorsi trent’anni e il contesto mafioso sia mutato.
«Quella gente – rammenta il testimone di giustizia, alludendo ai condannati per il delitto – sconta l’ergastolo, la stagione del “clan dei pastori” è in parte finita e il tempo ha sepolto molte delle mie paure e dei possibili rischi. Molte, ma non tutte. Una parte di me vive ancora inesorabilmente della stessa adrenalina dei primi mesi, quando uno scambio casuale di sguardi rappresentava già un contatto troppo ravvicinato con gli estranei».
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Lavatino, il giudice martire, e Nava, il testimone esemplare
Il 21 dicembre 2020 papa Francesco ha riconosciuto il martirio di Rosario Livatino, aprendo la strada della beatificazione. Il “giudice ragazzino” sarà il primo magistrato beato nella storia della Chiesa cattolica. Un uomo dello Stato, come Nava.
«Anch’io sono lo Stato. La sessanta milionesima parte, forse. Ma è la mia parte, e non tocca a nessun altro. Quella mattina ho assistito alla barbara morte di Rosario Livatino e ho deciso di testimoniare, non sapevo chi fosse la vittima dell’agguato cui avevo assistito, solo molte ore più tardi ho saputo che si trattava di un giudice, di un giovane magistrato antimafia. Oggi so che quell’istante che ha cambiato per sempre la mia vita è servito a dare giustizia ad un Beato. Quel giorno sono morto insieme a lui, mi sono caricato sulle spalle una croce che continuo a portare ancora oggi», commenta, dopo l’annuncio del Vaticano.
Rosy Bindi, nella prefazione al libro: «Doveva essere protetto contro nemici invisibili»
Anche Nava, premiato con riconoscimenti e onorificenze, viene portato ad esempio. «La testimonianza nel processo – sottolinea Rosy Bindi nella prefazione del volume – ha comportato una testimonianza nella vita e per un’intera comunità… Proprio per ciò che aveva veduto, doveva essere protetto contro nemici invisibili, ai quali poteva sfuggire solo rendendosi invisibile e introvabile.
«Perché di fronte a un apparato burocratico che spesso si rivela inadeguato a fronteggiare casi particolarmente difficili – prosegue – si tende naturalmente a generalizzare e a nutrire un sentimento polemico contro tutto ciò che simboleggia o rappresenta lo Stato. Questo lui non lo ha fatto, anche quando ha subito dei torti personali, e ha sempre mantenuto un alto senso di appartenenza alle istituzioni, che gli deriva anche dalla famiglia in cui è cresciuto».
La legge sui testimoni di giustizia: una protezione vera solo dal 2018
«Dieci anni di disperazione nera, poi altri dieci di montagne russe (tra speranze e ricadute, addii e ritorni) e gli ultimi dieci di lenta, a tratti incredula, risalita». Per la decisione di farsi avanti, e per le traversie che ha dovuto affrontare, Piero Nava è stato convocato e sentito dai parlamentari della commissione Antimafia.
Quando ha scelto di non girarsi dall’altra parte, una legge sulla protezione dei testimoni di giustizia ancora non c’era. L’anno dopo, nel 1991, furono approvate le norme per la protezione dei “soli” pentiti di mafia.
Si mise una pezza con una legge del 2001, carente, disomogenea. Una legge dettagliata per i testimoni di giustizia fu approvata solo nel 2018, facendo tesoro dell’esperienza dell’ex agente di commercio, dei suoi suggerimenti e delle falle nella rete di sicurezza dispiegata attorno a lui (qui il PDF della Relazione al Parlamento del ministero dell’Interno).
«La sua storia – rimarca sempre la Bindi – merita di essere meglio conosciuta non solamente per avere coscienza dei sacrifici e dei rischi a cui vanno incontro coloro che rompono il muro di omertà che protegge le mafie, ma soprattutto per capire che nella lotta alla criminalità organizzata e all’illegalità nessuno può pensare di delegare alle forze dell’ordine e alla magistratura questo impegno».
Nava non ha passato la mano. Ripete, dall’inizio: «Io ho sempre avuto un difetto: una cosa per me o era bianca o era nera. Lo Stato sono anch’io, lo Stato siamo tutti noi».
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Perché Piero Nava non è stato ucciso
Il fu Piero Nava rifarebbe ogni cosa, cento volte, senza indugi, rigiocandosi la vita. E prova a spiegare perché quella mattina non ammazzarono pure lui. «Non ci hanno nemmeno provato. Erano armati fino ai denti, eppure non hanno sparato un solo colpo nella mia direzione. Mi hanno lasciato andare, mi hanno ignorato. Perché? Durante i primi giorni ho semplicemente creduto che non si fossero accorti di me, che la mia fosse un’incredibile e sfacciata fortuna».
«Perché sono vivo? La motivazione – continua – è quasi banale: i sicari non pensavano che io sarei stato un problema per loro. Si credevano onnipotenti, non avevano paura di essere visti. Erano certi che, fosse pure accaduto, nessuno avrebbe parlato. Erano certi di avere potere assoluto su chiunque si trovasse ad Agrigento quella mattina: nessuno sarebbe stato così impudente da parlare».
Rabbia, amarezza e risposte mancate affiorano dalla trama del libro “Io sono nessuno”
In trent’anni il testimone ha masticato amarezza e rabbia. In una lettera al capo dello Stato, ripresa nel libro, affiorano la delusione e un’analisi lucida e impotente: «Egregio Signor Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, con tutto il rispetto che Le devo, non posso che esprimere la mia delusione per la chiara inefficienza, incapacità, mancanza di professionalità e a volte goffaggine decisionale di coloro che devono tutelare e assistere un cittadino che ha fatto il suo dovere. Sono Piero Ivano Nava, il testimone dell’omicidio del giudice Livatino».
E ancora: «Sono deluso dalle istituzioni, soprattutto perché non sanno dove trovare le leggi semplici, che sono quelle che servono e che aiutano sempre a vincere: i soldati possono essere ben armati, ma se camminano senza scarpe non possono che perdere; e sono deluso da quelle persone che vengono poste a capo dei direttivi».
La realtà descritta nel libro supera la fantasia
Un esempio concreto, tra i tanti portati nel volume? «Dieci anni passati chiuso in casa, come un recluso, hanno rischiato di farmi saltare la pensione. Ho dovuto faticare per recuperare i contributi che ho versato all’Inps nei miei primi vent’anni di lavoro, pagati da chi si chiamava ancora Piero Nava. Rischiavano di andare persi, per questo o quel cavillo, ogni volta ce n’era uno. Ho dovuto lottare anche per vedermi riconosciuti i contributi degli anni trascorsi senza poter nemmeno cercare un lavoro, senza di quelli sarei andato in pensione con un assegno davvero basso per uno come me che guadagnava certe cifre nel 1990».
Un altro esempio? La notte dopo il delitto Livatino, bloccato ad Agrigento, Nava andò a dormire nell’appartamento privato di un ispettore di polizia, nella cameretta lasciata libera dal figlio. Non c’erano altri posti sicuri, situazioni simili non erano previste.
“Io sono nessuno”: gli ultimi dati sui testimoni di giustizia
La nuova legge sulla protezione testimoni risparmierà ad altri umiliazioni e privazioni e garantirà loro diritti minimi, essenziali? Nava lo spera. «Finalmente – annota – si arriva a una chiara distinzione tra collaboratori di giustizia e testimoni. Rispettivamente cinquemila contro centotrenta, familiari compresi».
Al 31 dicembre 2018 – precisano le ultime statistiche ufficiali del Viminale – i testimoni di giustizia sotto protezione erano 51, 18 donne e 33 uomini, più i familiari.
La Calabria ne contava 21, la Sicilia 12, la Campania 11, la Puglia 4, Lazio, Lombardia e Basilicata 1, tutte le altre regioni zero.
Sette di loro hanno assistito ad omicidi, 31 sono stati vittima di estorsioni o usura oppure di entrambi i reati, 1 di strage e 12 di criminalità organizzata.
Il numero di persone protette (testi e vittime di reato, pentiti esclusi) è oscillato tra 56 e 74, con un numero compreso tra 121 a 229 parenti stretti sottoposti a misure di tutela (qui altri dati storici).