Eni Nigeria: nuove prove entrano nel processo in vista della sentenza

Due email prodotte in una causa civile a Londra sono state aquisite nel processo Eni Nigeria a Milano. Secondo l'accusa sarebbero la prova della vicinanza tra uno dei destinatari della presunta tangente e un ex ministro nigeriano, oltre che dell'esistenza di timori sulla provenienza degli 1,1 miliardi di dollari ritenuti la somma della corruzione da parte di Eni e Shell

Il collegio giudicante della Settima sezione penale del Tribunale di Milano ha acquisito due nuove prove nel corso del processo Opl 245, in cui Eni e Shell siedono al banco degli imputati per corruzione internazionale. I documenti sono stati prodotti dalla pubblica accusa al termine dell’udienza del 20 gennaio, in cui le difese di Eni e Shell hanno fatto le loro arringhe.

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Punto a favore dell’accusa a due mesi dalla sentenza

La decisione dei giudici segna senza ombra di dubbio un punto a favore per i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro a un mese e mezzo dall’inizio della camera di consiglio, ossia il momento dal quale è possibile che i giudici formulino la sentenza di primo grado.

Il codice di procedura penale prevede che l’acquisizione di nuovi documenti così in là con il processo sia un’eccezione. L’esistenza di questi documenti, due email, è stata resa possibile dalle ong Re:Common, Corner House e Global Witness, tre delle quattro organizzazioni che hanno depositato l’esposto che ha innescato le indagini nel 2013.

Sono state loro a segnalare alla procura una lista di documenti allegati a una sentenza dell’Alta Corte di Londra in merito a una causa civile tra la Nigeria e Jp Morgan a novembre del 2020. Documenti che possono ora essere utili anche per ricostruire la verità giudiziaria a Milano.

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Palazzo di giustizia di Milano – Foto: Caccamo (via Flickr)

Eni Nigeria, la mail firmata Adoke Bello a processo

Il corpo della prima email, datata 21 giugno 2011, è molto stringato: «Caro signore, in allegato trova gentilmente i documenti per sua informazione e azione, se necessario. Cordiali saluti». La firma in calce è Mohammed Adoke Bello, in quel momento ministro della Giustizia nigeriano, accusato di essere uno dei pubblici ufficiali nigeriani destinatari della tangente. L’email mittente è [email protected], ossia l’indirizzo di posta di A Group Properties.

La società appartiene ad Aliyu Abubakar, imprenditore nigeriano che dalle analisi dei flussi finanziari della Guardia di finanza risulta il collettore della tangente per conto di Malabu, società petrolifera nigeriana prima proprietaria della licenza Opl 245. Alla fine incassa «mezzo miliardo di dollari», ricordava il pm De Pasquale nell’udienza del 20 gennaio.

L’imprenditore nigeriano è protagonista di un secondo troncone del processo, visto che, per un problema procedurale, non era stato possibile inserirlo nel filone principale. La prima udienza del suo processo, scrive Domani, si è celebrata sempre a Milano a fine gennaio.

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Mohammed Bello Adoke – UN Photo / Jean-Marc Ferré (via Flickr)

Christopher Bajo Oyo: chi è il destinatario del messaggio dell’ex ministro della Giustizia in Nigeria

Il “signore” dell’incipit della mail è Christopher Bajo Oyo, predecessore al ministero della giustizia di Adoke Bello tra il 2005 e il 2007. È un personaggio chiave nelle trattative.

Nel 2006, riassegna la llicenza petrolifera Opl 245 a Malabu Oil and Gas, la società del presunto smistatore di mazzette Dan Etete, dopo un’iniziale riassegnazione voluta dall’allora presidente Olusegun Obasanjo. Nel 2010 riceve un mandato per rappresentare sul piano legale la Malabu Oil and Gas firmato da Dan Etete.

In virtù di questo accordo, architetta l’escrow agreement, l’accordo di garanzia, tra Malabu e Petrol Service, la prima società petrolifera che nell’ipotesi accusatoria sarebbe stata individuata dalle parti per ricevere gli 1,1 miliardi di dollari provenienti da Eni: la presunta mazzetta.

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Caso Opl 245: meno soldi per Bajo Oyo

L’operazione, messa in atto il 31 maggio, salterà poi a causa della Banca svizzera italiana, la banca presso cui aveva il suo conto corrente l’azienda petrolifera. L’istituto di credito segnala come sospetta l’operazione e manda indietro il denaro.

Bajo Oyo avrebbe dovuto incassare in tutto 50 milioni di dollari e girarne cinque alla Petrol Service, il cui amministratore delegato è l’ex console onorario italiano a Port Harcourt, Gianfranco Falcioni. Alla fine, invece, secondo i pm Bajo Oyo incasserà 10 milioni di tangenti.

Eni Nigeria, le bozze che Jp Morgan non doveva avere

A rendere ulteriormente significativa l’email sono i tre allegati: bozze del resolution agreement, dell’accordo, tra Eni, Shell e il governo nigeriano. Nella prima mancano delle firme, nelle altre due manca la data del 29 aprile 2011, giorno della firma finale.

L’accordo è lo strumento attraverso cui si costruisce l’architettura legale per far partire il bonifico dei soldi di Eni (per conto anche di Shell) al governo nigeriano. Il problema però è che a sua volta la Nigeria ha un accordo con Malabu per dirottare 1,1 miliardi di dollari alla società di Dan Etete, cedendo così la licenza alle aziende petrolifere. I soldi sul conto corrente nigeriano resteranno fermi oltre un mese prima di trovare un modo di recapitarli a destinazione.

Questa email è a sua volta inoltrata in una comunicazione interna tra due funzionari della banca Jp Morgan, l’istituto di credito dal quale poi effettivamente passerà il denaro delle compagnie petrolifere destinato al governo nigeriano. Il corpo della mail è «FYI», «per tua informazione».

Dal punto di vista dell’accusa, la comunicazione è significativa per due motivi: conferma il collegamento tra Adoke Bello, Abubakar Aliyu e Bajo Oyo, tre personaggi che si sarebbero spartiti i soldi della tangente per i favori concessi a Etete e alla Malabu; mostra che la banca Jp Morgan era in possesso di documenti non ufficiali che non la avrebbero dovuto riguardare.

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The Old Schoolhouse, Londra (ex sede di Jp Morgan) – CC BY-SA 2.0 – Foto: Peter Church (via Wikimedia)

Eni Nigeria: la banca temeva che si trattasse di denaro sporco

La seconda mail, invece, risale al 23 giugno 2011. La scambiano due funzionari della Jp Morgan di Londra ed è rilevante soprattutto per le richieste della parte civile, cioè il governo della Nigeria. «Contiene una serie di riflessioni sui pericoli di questa operazione», la sintetizzava il pm De Pasquale all’udienza del 20 gennaio. In effetti nel testo si legge:

«Mentre rimaniamo sospettosi che tali fondi possano essere profitto di corruzione di pubblici ufficiali, qualsiasi richiesta proveniente da FGN (governo della Nigeria, ndr) affinché vengano trasferiti altrove sarebbe soggetta a una richiesta di consenso a SOCA (ufficio antiriciclaggio inglese, ndr) che potrebbe richiedere fino a sette giorni lavorativi».

Cioè, dice la procura, alla banca temevano che l’origine del denaro fosse sporca. Il passaggio formale è ottenere un’autorizzazione del Soca, l’ufficio antiriciclaggio inglese, che però non esenta da eventuali responsabilità penali chi non si è accertato dell’origine del denaro.

Nell’email il responsabile della compliance, la conformità dell’azienda alle leggi vigenti, elenca delle ipotesi per ovviare al problema: primo, «possiamo rifiutare di pagare. FGN potrebbe quindi scegliere di citarci per recuperare i fondi il che significherebbe che il caso approderebbe in Tribunale»; secondo, «potremmo andare davanti al giudice in Nigeria, Gran Bretagna o Usa per cercare una soluzione per vie legali», anche se al momento non c’è un vero contenzioso in atto; terzo, «potremmo affermare che siamo solo disposti a fare il pagamento al conto della Banca centrale nigeriana presso Jp Morgan Chase Bank a New York, ma considerate le nostre preoccupazioni, questo sposterebbe solo il problema alla giurisdizione americana».

Secondo la procura il documento smonta la ricostruzione di Eni secondo cui Jp Morgan era tranquilla con le «approvazioni » – che tali non sono – del Soca, punto su cui Eni ha spinto molto.

Adoke Bello contro la procura milanese nel processo Opl 245

Alla fine a trovare la soluzione è ancora Adoke Bello, approvando la transazione verso Malabu con una lettera del 10 agosto 2011. «I fondi – si legge nella memoria dei pm – venivano infine inviati il 24 agosto 2011 presso due conti di Malabu Oil e Gas in Nigeria, uno presso la First Bank of Nigeria e l’altro presso Keystone Bank».

Adoke Bello già al termine della scorsa udienza si era fatto sentire.

«Ho letto con sgomento le notizie sul tentativo del pubblico ministero italiano di presentare prove fabbricate che mi riguardano nel procedimento Opl 245 in corso davanti a un tribunale di Milano di cui non sono parte», aveva scritto in una nota. «Possono continuare a produrre disperatamente prove e inventare bugie come vogliono, ma dovrebbero lasciare il mio nome fuori dalle loro macchinazioni. Fate loro sapere che non smetterò di smascherare le loro bugie contro di me fino a quando non sarà fatta giustizia».

L’ex ministro è imputato ad Abuja per frode e riciclaggio insieme ad Abubakar Aliyu e Dan Etete.

Secondo quanto dichiarato alla stampa nigeriana dal suo avvocato, si troverebbe a Dubai, positivo al Covid. Il processo è stato di conseguenza riaggiornato a marzo.

A dicembre 2019, proprio di rientro dal Paese del Golfo, l’ex ministro era stato tratto in arresto e in seguito scarcerato. Un anno dopo ha ottenuto dai giudici nigeriani la possibilità di tornare nell’emirato «per motivi medici». Secondo quanto concesso dai giudici della Nigeria, avrebbe dovuto fare rientro in patria entro e non oltre 10 gennaio.

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