Colpo di stato in Myanmar: ecco cosa sta succedendo nell’ex Birmania
I militari hanno arrestato Aung San Suu Kyi, preso il potere e annunciato un anno di stato di emergenza in Myanmar, ex Birmania. Ecco come è stato possibile arrivare al golpe e a cosa potrebbe portare quest'ultimo colpo di Stato nel Paese asiatico
da Hua Hin (Thailandia)
Il sogno di un Myanmar democratico è finito ieri, quando un colpo di Stato messo in atto dai militari, ha rovesciato il governo eletto nel novembre scorso. Aung San Suu Kyi e diversi altri esponenti di spicco della sua Lega nazionale per la democrazia (Lnd) – partito che ha trionfato nell’ultima tornata elettorale con ben 396 dei 476 seggi in palio – sono stati arrestati in una operazione dell’esercito alle prime luci dell’alba, proprio nel giorno in cui si sarebbe dovuta tenere l’inaugurazione del nuovo Parlamento.
Il golpe militare e lo stato di emergenza
Le forze armate del Paese hanno preso il controllo del principale aeroporto di Yangon, quasi tutte le trasmissioni televisive sono state oscurate e le comunicazioni telefoniche e internet sono andate in tilt. Poi l’annuncio in diretta su Myawaddy TV, gestita dallo stesso esercito, dove, appellandosi agli articoli 217 e 218 della Costituzione del 2008 – fatta proprio dagli stessi militari – è stato comunicato ufficialmente lo stato di emergenza per la durata di un anno.
I poteri sono stati immediatamente trasferiti al generale Min Aung Hlaing, capo delle forze armate in carica e il generale Myint Swe, fino ad ieri vicepresidente del Paese, è stato nominato presidente ad interim.
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Il colpo di stato in Birmania era prevedibile
Il timore di un golpe era nell’aria. Da giorni, infatti, l’esercito, che in questi anni ha mantenuto un enorme potere, controllando di fatto la vita politica, sociale ed economica del Paese, aveva denunciato delle irregolarità alle ultime elezioni e aveva minacciato di «passare all’azione» se le accuse di brogli non fossero state considerate.
Proprio per la paura di un colpo di Stato, molte ambasciate presenti in Myanmar, tra cui quella degli Stati Uniti e la delegazione dell’Unione europea, avevano sollecitato i militari ad «aderire a standard democratici». Ma così non è stato.
Per capire le dinamiche di questo complesso Paese, governato per decenni da una giunta sanguinaria, che negli anni ha compiuto innumerevoli violazioni di diritti umani, fino ad arrivare all’accusa di genocidio per aver commesso violenze atroci contro la popolazione a maggioranza musulmana dei Rohingya nel 2007, bisogna fare diversi passi indietro.
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In Myanmar contano più i militari che le elezioni
La trasformazione del Myanmar verso la democrazia, sostenuta a spada tratta da un Occidente interessato più a ridurre la dipendenza economica della ex-Birmania dalla Cina che ai diritti umani, sarebbe dovuta iniziare nel 2012, per poi consolidarsi alla fine del 2015, proprio con la vittoria alle elezioni dell’Ndl, il partito guidato appunto dalla Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi. Ma i militari hanno fatto bene i loro conti prima di arrivare a quello che il mondo ha erroneamente fatto passare come la svolta democratica del Paese.
La carta costituzionale, infatti, non solo riserva all’esercito il 25% dei seggi parlamentari indipendentemente dall’esito delle elezioni, ma permette loro di controllare anche il ministero degli Interni, quello della Difesa e quello per gli Affari di confine.
Inoltre, la vecchia giunta, è parte del “Consiglio per la difesa e la sicurezza nazionale” che in qualsiasi momento può bloccare o modificare le leggi considerate pericolose per l’unità e la sicurezza del Paese, con la possibilità di assumere il totale controllo qualora l’integrità del Myanmar venisse in qualche modo minacciata. Proprio quello che hanno fatto ieri mattina, appellandosi alla Costituzione da loro stessi redatta nel 2008.
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La facciata di democrazia ha arricchito i militari birmani
Ma non solo. I militari hanno tratto vantaggio con l’allentamento delle sanzioni economiche imposte negli anni Novanta e l’inizio di investimenti stranieri nel Paese. Anche l’Italia, attraverso l’allora ministro degli Esteri nel governo Monti, Giulio Terzi, aveva dichiarato di essere interessata «all’accesso alle gare d’appalto» in quella che molti avevano iniziato a chiamare la nuova «tigre asiatica». Parole che poi sono diventate fatti. Diverse aziende italiane, infatti, si sono successivamente recate in Myanmar per parlare e concludere affari.
E mentre si parlava di democrazia, i vecchi generali si sono dati da fare, puntando su diversi settori e ingrassando i loro portafogli. Nel luglio del 2020, lo smottamento avvenuto nei pressi di una miniera di giada nel distretto di Hpakan, nel Nord-Est del Myanmar, che ha causato la morte di oltre 170 persone, ha riaperto i riflettori sullo sfruttamento dei giacimenti e numerose associazioni ambientaliste hanno documentato come dietro a questo enorme business ci sarebbero proprio i militari.
Secondo un rapporto del 2015 realizzato da Global Witness, il valore proveniente da questo mercato, solo nel 2014, sarebbe stato pari a 31 miliardi di dollari, circa il 50% del Pil del Myanmar. E di quasi 123 miliardi nel decennio 2004/2014.
Gli affari dei generali in Myanmar
Ad arricchirsi maggiormente, si legge sempre nel documento dell’organizzazione, sarebbero gli ex generali della giunta. Primo fra tutti il generalissimo Than Shwe, padre-padrone della Birmania dal 1992 al 2011 e la sua famiglia che, nel biennio 2013-2014, avrebbe guadagnato più di 220 milioni di dollari.
Ma nello sporco affare della giada ci sarebbe anche la famiglia di Ohn Myint, il nuovo presidente ad interim nominato ieri dopo il colpo di stato, famoso per la sua violenta repressione durante le manifestazioni antigovernative condotte dai monaci buddisti andate in scena nel 2007.
Arrivando ai giorni nostri, come abbiamo già scritto su Osservatorio Diritti a gennaio (leggi Myanmar: banche europee e società internazionali sostengono i militari), l’organizzazione Justice for Myanmar (Jfm) ha messo in luce il coinvolgimento del Tatmadaw – il potente esercito dell’ex-Birmania – nel settore della comunicazione, scoprendo una rete di imprese internazionali e società bancarie che avrebbero dato alle truppe armate accesso a fondi e tecnologie che sarebbero state utilizzate, oltre che per arricchirsi, anche per violare i diritti umani, commettendo crimini di guerra nelle diverse zone etniche del Paese.
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Il silenzio sui Rohingya e sui conflitti: chi è Aung San Suu Kyi, vincitrice delle elezioni e arrestata dai militari
Il silenzio assordante di Aung San Suu Kyi nel non condannare i militari sul massacro della minoranza dei Rohingya e sui diversi conflitti etnici del Paese ha fatto il giro del mondo e l’ha fatta passare velocemente da eroina della democrazia a complice del genocidio.
«La colpa di questa situazione è da attribuire in parte ai governi occidentali», spiega ad Osservatorio Diritti Zachary Abuza, professore al National War College di Washington ed esperto di sud-est asiatico. «È probabile che in passato l’Occidente abbia semplicemente sbagliato a giudicare Aung San Suu Kyi. Si è vista in lei una vedova, costretta agli arresti domiciliari, nel più totale isolamento, da parte di uno dei più violenti regimi militari del mondo. E così è stata mitizzata», aggiunge l’analista.
«Il suo silenzio sul massacro dei Rohingya e quello sui conflitti con i gruppi etnici, non dovrebbe sorprendere più di tanto. Lei, infatti, è comunque una sciovinista di etnia Bamar (l’etnia principale del Paese, ndr) e una devota buddista che in questi anni non ha fatto molto per opporsi ai militari».