Eni Nigeria: sentenza del processo per corruzione prevista per marzo

Arringa finale per le difese di Eni e Shell al processo per corruzione internazionale legato alle presunte tangenti pagate per la licenza petrolifera Opl 245 in Nigeria. Gli avvocati chiedono l'assoluzione piena dei loro assistiti. Mentre l'accusa si gioca, a sorpresa, la carta di due nuove email da aggiungere al fascicolo

C’è una prima data possibile per la sentenza di primo grado del processo sulla licenza petrolifera Opl 245 in Nigeria. È il 17 marzo 2021, giorno in cui comincerà la camera di consiglio del collegio giudicante, cioè il momento in cui i giudici devono formulare la loro sentenza. Saranno passati tre anni dalla chiusura delle indagini del dicembre 2017.

Nel corso delle ultime udienze del processo, il fronte delle difese di Eni e Shell – le due aziende accusate di aver pagato in Nigeria la maxitangente da 1,1 miliardi di dollari – e dei loro manager si è compattato intorno alla richiesta di un’assoluzione con formula piena per i loro assistiti (Leggi anche Eni Nigeria, la difesa di Descalzi: “Non c’è stata corruzione internazionale”).

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Eni Nigeria, colpo di scena al processo per presunte tangenti

Tuttavia anche il 20 gennaio, giorno dell’udienza con le arringhe difensive delle due aziende, il procuratore Fabio De Pasquale ha trovato il modo di guadagnarsi parte del palcoscenico, chiedendo l’acquisizione di due nuove email.

Sono allegate alla memoria difensiva di un procedimento civile in corso in Gran Bretagna, rese disponibili alla corte inglese da novembre. Da un lato c’è il governo nigeriano, dall’altro la banca dalla quale sono transitati i soldi della presunta tangente, JP Morgan, citata in causa dal governo di Abuja.

In particolare, la prima email secondo il pm De Pasquale testimonia la vicinanza tra il politico nigeriano Mohammed Adoke Bello e l’imprenditore che più avrebbe beneficiato della maxitangente, Aliyu Abubakar, detto Mr Corruption in Nigeria. L’ex politico, infatti, avrebbe chiesto alla banca di approvare il pagamento scrivendo da un indirizzo di posta elettronica corrispondente alla principale azienda di Aliyu Abubakar, la A Group Properties Limited, nigeriana.

La seconda, invece, mostrerebbe i dubbi di JP Morgan rispetto alla possibilità che il denaro fosse provento di un reato. Per la decisione del collegio giudicante se depositare nel fascicolo processuale questi due documenti, si dovrà aspettare la prossima udienza, il 3 febbraio.

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Mohammed Bello Adoke – UN Photo / Jean-Marc Ferré (via Flickr)

Adoke Bello, l’uomo al centro del processo Eni Nigeria

Durante il corso dell’udienza del 20 gennaio, lo scontro tra difesa e pubblica accusa è stato su tantissimi aspetti. Quello che da solo potrebbe decidere le sorti del processo è uno: il ruolo nella trattativa di Mohammed Adoke Bello.

L’uomo ad aprile 2011, il momento in cui è stato firmato il resolution agreement (contratto di risoluzione) che ha sbloccato il pagamento dei soldi di Eni e Shell per il governo della Nigeria, era attorney general, figura che riassume quello che in Italia sono il ministro della Giustizia e l’avvocato di Stato.

Per la procura, Adoke Bello è tra i percettori dei soldi di Eni e Shell, sotto forma di una villa nel centro di Abuja che gli è stata ceduta dall’amico Aliyu Abibakar (leggi anche Eni Nigeria: Adoke Bello, ministro della corruzione o vittima giudiziaria?).

«Venirci a raccontare che Adoke Bello dirige schemi contrattuali per favorire i suoi amici, ledendo gli interessi della Nigeria, è una cosa irreale, giuridicamente irreale», sostiene Guido Carlo Alleva, il difensore di Roberto Casula, manager di Eni responsabile dell’Africa subsahariana per la divisione Exploration & Production di Eni, all’epoca diretta da Claudio Descalzi, l’attuale amministratore delegato di Eni.

Il motivo sta, ad esempio, nel fatto che aveva ottenuto un mandato diretto dal presidente della Nigeria, Goodluck Jonathan, per rappresentare il paese nella trattativa.

Ne aveva dato notizia ad Eni proprio lo stesso Casula, il cliente di Alleva. Nel procedimento milanese, inoltre, i componenti del governo nigeriano che sarebbero stati corrotti dai soldi delle aziende petrolifere non sono imputati.

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Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni da maggio 2014 – Foto: Eni (via Flickr)

Per i difensori di Eni, Shell e Casula i pm “travisano” il ruolo del governo della Nigeria

Un altro punto su cui ruota sia l’arringa dell’avvocato Alleva sia dei colleghi che lo seguono – Nerio Diodà per Eni, Bruno Cova e Francesco Mucciarelli per Shell – è la pregiudiziale, sbagliata, con cui i magistrati e l’avvocato di parte civile leggono il comportamento del governo nigeriano.

L’ipotesi dell’accusa è che gli uomini dell’amministrazione di Goodluck Jonathan abbiano utilizzato il conto corrente delle JP Morgan intestato all’erario nigeriano per intermediare il passaggio di denaro in realtà destinato, in prima istanza, a Dan Etete e Aliyu Abubakar, i principali incassatori della tangente.

Da qui deriva l’espressione safe sex, con cui uno degli imputati, il diplomatico russo Ednan Agaev, ha definito l’operazione. Questa sudditanza dell’esecutivo ai voleri di Etete sarebbe legata da un lato all’avidità dei ministri Adoke Bello e la ministra del petrolio Alison Diezani-Mandueke, convinti di poter incassare una fetta della stecca. Dall’altro, dal rapporto che lega lo stesso Jonathan a Dan Etete, per i cui figli è stato una sorta di insegnante privato. In una società ancora fortemente condizionata dalla appartenenze tribali, il fatto che Etete sia chiamato chief, capo, vale quasi di più di un ruolo politico, secondo la procura (leggi anche Eni Nigeria: gli uomini del governo dietro le presunte tangenti per Opl 245).

Tutto questo si traduce nel resolution agreement, l’accordo che sblocca il pagamento al governo e che toglie dal tavolo la presenza di Malabu Oil & Gas, l’azienda del pregiudicato Dan Etete, condannato in Francia nel 2007 per riciclaggio.

Un’operazione «cosmetica», la definisce la procura, nel senso che cambia la forma ma non la sostanza. In più, secondo la procura l’accordo è dannoso per la Nigeria – tanto da ottenere il riconoscimento come parte civile nel processo italiano – innanzitutto per le royalties a zero e una fiscalità di favore, a detta dei magistrati, che si basano sull’opinione dell’epoca della società petrolifera nazionale Nigerian national petroleum company (Nnpc), altamente critica sulla risoluzione.

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Goodluck Jonathan – Foto: ©Commonwealth Sectratariat 2011 (via Flickr)

Nessuna corruzione: per Eni e Shell la Nigeria voleva chiudere l’accordo

Invece gli avvocati difensori di Eni, Shell e Roberto Casula sostengono che la Nigeria fosse il soggetto più interessato a chiudere la trattativa. Da 12 anni, ragionano gli avvocati, quella licenza petrolifera potenzialmente tanto ricca non veniva sfruttata. Il prezzo, che la procura e la parte civile ritengono basso soprattutto alla luce del ridotto vantaggio fiscale, sarebbe il frutto di un accordo in tre fasi, avvenuto tra il novembre 2010 e il marzo 2011.

«Le cifre e il valore sono state stabilite 15 mesi prima», replica Nerio Diodà, l’avvocato di Eni. Nel suo intervento ha sottolineato come la perizia di parte non avesse trovato alcuna lacuna nel dipartimento che si occupa della conformità alla legge 231, che prevede la responsabilità anche delle aziende nei reati portati a termine o tentati dai propri dipendenti.

Eni ha sempre trattato con il governo e non poteva anche avere idea che poi i soldi del suo pagamento, una volta in Nigeria, potessero servire a pagare una tangente: è il principio del «legittimo affidamento», spiega l’avvocato Diodà.

L’avvocato aggiunge che l’unica parte lesa di questa storia è Eni – e in parte minore Shell – che hanno speso una «montagna di danaro che non è servita a nulla», visto che al momento non è stato possibile sfruttarlo. E fa i conti: per rendere operativo Opl 245, Shell ha speso 300 milioni di dollari, Eni 750, a cui hanno poi aggiunto 1,3 miliardi (di cui 1,092, la presunta tangente, li ha messi Eni per conto di entrambe) per completarne la piena acquisizione. «Il 5 maggio 2021 – aggiunge l’avvocato Diodà – la scadenza (della licenza, ndr) sarà totale». Non è ancora chiaro cosa accadrà a quel punto.

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Il ruolo di Malabu nel processo Eni Nigeria

Nell’ipotesi della procura, a trarre il principale vantaggio dallo schema corruttivo è Malabu Oil & Gas e i suoi soci. La procura più volte ha fatto accenno all’«elefante nella stanza», mutuando l’espressione dall’inglese. È un modo di dire con cui si definisce una questione gigantesca, sotto gli occhi di tutti, di cui però nessuno vuole parlare.

Nel caso di Opl 245 è il fatto che la licenza nel 1998 fosse stata assegnata a Malabu dal ministro del Petrolio uscente Dan Etete, che ormai diversi elementi fanno pensare ne sia il vero proprietario, per quanto ancora la vicenda abbia strascichi giudiziari in sede civile in Nigeria.

L’avvocato Bruno Cova, che rappresenta Shell, ha rievocato gli inizi dei rapporti tra l’azienda petrolifera anglo-olandese e Malabu, nel 2001, quando aveva acquisito il 40% della licenza. È un momento chiave, perché al governo c’era Olusegun Obasanjo, il nemico di Sani Abacha (il dittatore per il quale Etete è stato ministro del Petrolio). Ha confermato la licenza a Malabu, quindi non poteva esserci timore di corruzione e la due diligence di Shell infatti non l’ha trovata.

Da lì in avanti però inizia quello che l’avvocato Cova definisce «l’atteggiamento erratico» (o «schizofrenico») del governo di Abuja nella concessione della licenza. Giusto sei mesi dopo, la licenza venne ritirata a Malabu e iniziò un balletto di otto passaggi di licenza tra la società di Etete, Shell e l’azienda petrolifera nigeriana Nnpc, che finirà nel 2007 con una richiesta di arbitrato internazionale Icsid da parte di Shell (Eni ne ha aperto uno a settembre 2019), per risolvere il contenzioso. Era necessario muoversi con Malabu per risolvere la titolarità della licenza, a partire dal 2006.

Secondo le difese, è uno dei motivi per cui il governo di Abuja aveva interesse a chiudere con un accordo la vicenda Opl 245 e archiviare tutti i contenziosi. Avrebbe potuto infatti perdere, mentre la cessione della licenza garantiva comunque un introito. Anche la “cosmesi” per togliere Etete dai documenti, secondo la difesa di Shell, è una falsa impressione della procura.

A chiudere l’udienza, durata sette ore e mezza, è stato il professor Francesco Mucciarelli, che si è dilungato sul fatto che l’impianto accusatorio sia viziato dal preconcetto di fondo che Malabu non avrebbe dovuto ottenere la licenza nel 1998, ma sul punto in Nigeria nessuno si è mai opposto. Un errore di prospettiva che avrebbe innescato poi tutta l’indagine.

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