Giornata internazionale dei migranti tra pandemia e diritti negati

Chiusi in centri di detenzione. Bloccati in zone di frontiera o in Paesi terzi, senza più un lavoro né la possibilità di cercarlo. Più esposti al virus. Sono alcune delle conseguenze che la crisi sanitaria ha avuto sui migranti nel mondo: 272 milioni di persone che hanno lasciato la propria terra, più altri 51 milioni di sfollati interni

Sono 272 milioni, più di una persona ogni 30 abitanti sulla terra. È questo il numero dei «migranti internazionali» nel 2019, con una crescita media di circa 14 milioni di persone ogni due anni. Sono numeri importanti quelli contenuti nel Word Migration Report 2020 dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), che sottolineano come il fenomeno migratorio sia in continua e costante crescita (qui il documento completo in inglese).

A questi si aggiungono anche tutti i migranti e gli sfollati interni, che alla fine del 2019 erano 50,8 milioni, il dato più alto mai registrato finora. Numeri preoccupanti, da tenere in considerazione anche in occasione della Giornata internazionale del migrante, proclamata dalle Nazioni Unite il 18 dicembre del 2000.

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Lesbo, Grecia – Foto: via Pixabay

Giornata internazionale dei migranti: come nasce e perché proprio il 18 dicembre

Questa commemorazione nasce ben prima della sua proclamazione. Era infatti il 1972 quando 28 lavoratori, originari del Mali, persero la vita in un terribile incidente sotto il traforo del Monte Bianco. Viaggiavano nascosti a bordo di un camion, diretti verso la Francia alla ricerca di lavoro e opportunità per migliorare le proprie condizioni di vita.

Scosso dalla notizia, il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite (Ecosoc) decise di adottare una risoluzione per chiedere alla Commissione sui diritti umani di prendere in esame la questione dei lavoratori migranti. Così nel 1979, con la Risoluzione 34/172, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite istituì un gruppo di lavoro per redigere una Convenzione sul tema.

Più di un decennio dopo vide la luce la Convenzione internazionale sulla protezione dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie. Era il 18 dicembre del 1990, ma la Convenzione è entrata in vigore solo il 1° luglio del 2003 grazie alla ratifica del Guatemala, che ha consentito di raggiungere il numero minimo previsto di 20 ratifiche.

Convenzione internazionale sulla protezione dei lavoratori migranti

La Giornata internazionale del migrante è stata però proclamata già nel 2000, nell’ambito di una campagna globale volta proprio a far conoscere lo strumento normativo della Convenzione e a spingere il maggior numero di Stati possibile a ratificarla.

Questo documento ha stabilito per prima volta la definizione internazionale di «lavoratore migrante» e rimane ancora oggi uno strumento per tutelare i lavoratori e le lavoratrici migranti, indipendentemente dal proprio status migratorio.

Attualmente la Convezione è stata firmata da 51 Stati, su un totale di 208, la maggior parte dei quali sono gli stessi Stati di origine dei migranti. L’Italia, come la maggior parte dei Paesi europei a forte immigrazione, non l’ha ancora ratificata.

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Migranti sudanesi – Foto: via Pixabay

L’allarme dell’Oim: migranti a rischio

«L’impatto della crisi di Covid-19 sulla salute e sulla mobilità delle persone minaccia di far tornare indietro gli impegni globali, incluso quello sul Global Compact on Migration, e di ostacolare gli sforzi in corso a sostegno di chi ha bisogno di assistenza. Deve essere nostra responsabilità collettiva salvaguardare i diritti delle persone in movimento e assicurare loro protezione da ulteriori mali».

È quanto dichiarato da Antonio Vitorino, direttore Generale dell’Oim a commento dell’ultimo report pubblicato a novembre dall’Oim e dal Programma alimentare mondiale (Pam).

Fame e povertà si diffondono con la pandemia

La pandemia ha infatti reso sempre più difficile, per i 164 milioni di lavoratori stranieri nel mondo, riuscire a spostarsi e a produrre mezzi di sostentamento. La Banca Mondiale ha previsto un calo del 14% nelle rimesse verso paesi a basso e medio reddito entro il 2021, rimesse da cui dipende l’esistenza di circa 800 milioni di persone nel mondo.

Le conseguenze indirette della diffusione del nuovo coronavirus sulla sicurezza alimentare potrebbero perciò essere devastanti. Il Programma alimentare mondiale ha stimato che almeno 33 milioni di persone potrebbero soffrire la fame entro la fine del 2021, come diretta conseguenza del calo delle rimesse.

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Migranti in Italia: crisi sanitaria, disoccupazione e diminuzione dei redditi

Da una parte l’emergenza sanitaria ha evidenziato come il contributo dei lavoratori stranieri sia fondamentale per la tenuta sociale dell’Italia, e in generale dei Paesi ospitanti, considerato che la maggior parte di loro sono impegnati in settori chiave nel contrasto alla pandemia (sanità, servizi di pulizia e cura della persone e comparto agroalimentare).

Dall’altra, però, i timori di nuove ondate di contagi e di una grave recessione economica hanno esposto questi lavoratori a nuovi rischi: non solo quello di contrarre il Covid, ma anche di incappare più facilmente in licenziamenti, situazioni di sfruttamento e nelle restrizioni degli spostamenti.

Immigrati sfruttati nelle campagne: i dati del dossier statistico 2020

Secondo i dati riportati nel Dossier Statistico Immigrazione 2020 del Centro studi e ricerche Idos, le stime sui lavoratori immigrati sfruttati nelle campagne italiane sono aumentate di 40-55mila unità dall’inizio della pandemia. Una crescita del 15/20% rispetto al periodo precedente.

Da questi dati emerge chiaramente come la crisi sanitaria abbia causato un peggioramento generale delle condizioni lavorative e di vita, in particolare dei braccianti immigrati.

Lavoratori domestici e rimesse dei migranti in Italia

Situazione che non migliora per quanto riguarda il comparto domestico. Secondo i dati elaborati da Assindatcolf, da marzo a giugno 2020 sono stati interrotti circa 12.950 contratti di lavoro. Forte frenata anche per il lavoro autonomo in generale, con una diminuzione del 40% rispetto allo stesso periodo del 2019.

Calano infine anche le rimesse destinati ai familiari dei migranti rimasti in patria: già nel primo trimestre del 2020 si è registrata una contrazione del 7,3% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Bisogna infine tener presente che, come si legge nel report, «il mercato del lavoro italiano appare ancora rigidamente scisso su base “etnica”, con le occupazioni più rischiose, di fatica, di bassa manovalanza, precarie e sottopagate massicciamente riservate agli stranieri, che vi restano inchiodati anche dopo anni di servizio e di permanenza nel paese: circa 2 su 3 di essi svolgono lavori non qualificati o operai (63,3%, contro solo il 29,6% degli italiani), mentre ha un impiego qualificato solo il 7,6% (tra gli italiani ben il 38,7%)».

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Profughi in fuga dalla guerra in Siria – Foto: via Pixabay

Condizione abitativa e centri di accoglienza

Questa crescente marginalizzazione socio-economica dei migranti va ad alimentare ulteriormente situazioni di sovraffollamento di baraccopoli e campi profughi. Secondo l’European Network Against Racism (Enar), tra gennaio e aprile 2020 in Europa si sono verificate più di 190 violazioni dei diritti fondamentali nei confronti dei cosiddetti racialised group.

Per quanto riguarda la situazione abitativa, l’accesso alla casa potrebbe subire gravi complicazioni a causa della pandemia. «A fine 2020 si calcola un crollo delle compravendite di immobili da parte di stranieri (-52,7%), della relativa spesa media (da un massimo di 130.000 euro del 2018 a 85.000 euro) e della qualità delle case da loro acquistate (per lo più appartamenti bilocali di ampiezza media di 55 mq, in edifici in modesto stato di conservazione)», si legge nel Dossier. «Inoltre, in controtendenza rispetto agli anni più recenti, nel 2020 sempre più stranieri sono tornati ad acquistare casa o nelle periferie dei principali centri urbani, dove spesso si formano così quartieri ghetto a connotazione “etnica”, o nei più piccoli dell’hinterland».

Coronavirus e migranti

In questi ultimi mesi sono stati numerosi anche i casi di focolai scoppiati all’interno dei Cas, i centri di accoglienza straordinaria, e dei Cpr, i Centri per il rimpatrio sul territorio nazionale.

«Ammassare centinaia di persone in uno stesso stabile, espone a rischi maggiori prima di tutto gli ospiti, ma anche gli operatori e da ultimo la comunità accogliente. Rischi che si sarebbero potuti limitare accogliendo i richiedenti asilo in strutture abitative con un numero limitato di posti distribuite in maniera uniforme sul territorio nazionale», è quanto si legge nel documento redatto da Actionaid e Openpolis dal titolo “Il sistema a un bivio” e relativo al mese di ottobre 2020.

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