Il direttore: memorie e utopie di quarant’anni di lavoro in carcere
Luigi Pagano, a lungo capo del penitenziario milanese di San Vittore, affida al libro "Il direttore" (Zolfo Editore) il racconto di quarant'anni di lavoro in carcere. Un viaggio umano e professionale che si intreccia con i momenti chiave della storia italiana
Si intitola semplicemente “Il direttore. Quarant’anni di lavoro in carcere”, ma potrebbe chiamarsi “Autobiografia di un carceriere”, oppure “Delitti e castighi” o “Memorie dal sottosuolo”, quello che non si vede o non si vuole vedere. È il libro scritto da Luigi Pagano, per 16 anni al timone della casa circondariale milanese di San Vittore, poi a capo di tutti i penitenziari del Nord-ovest e numero due del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
In 304 pagine, nella pubblicazione di Zolfo Editore racconta 40 anni da “sbirro” e insieme riformatore e scorci di “vita offesa” dei “sommersi” del carcere. Spiega la fatica di conciliare le regole con la capacità di comprendere e l’empatia, unite alla volontà di cambiare le cose e ridurre la distanza tra i princìpi sanciti dalla Costituzione e la realtà delle patrie galere.
Con la sentenza Torregian, si ricorda, la Corte europea dei diritti umani nel 2013 condannò l’Italia per il trattamento inumano e degradante inflitto alle persone ristrette, mettendo sotto accusa l’intero sistema penitenziario. Non era la prima volta, già nel 2009 la Cedu ci aveva censurato.
Il carcere oggi in Italia: i dati del sovraffollamento
Al 30 novembre 2020, nei 189 penitenziari italiani si contano 54.368 detenuti, 2.303 dei quali donne, più 34 bambini, figli di 31 delle 34 mamme in cella, il tutto a fronte di una capienza massima regolamentare di 50.568 posti (fonte: ministero della Giustizia). I posti accettabili sulla carta sono calcolati sulla base del criterio di 9 metri quadrati per singolo detenuto, più 5 per ogni compagno di cella in più.
I carcerati positivi al nuovo coronavirus censiti al 28 novembre dall’ufficio del Garante nazionale private della libertà sono 882, stipati in 86 istituti, un numero in continuo aggiornamento. I morti per il contagio sono almeno 14 per l’associazione Ristretti Orizzonti (aggiornamento al 13 dicembre 2020).
Per “il direttore” la pena detentiva è il «riconoscimento della sconfitta»
Secondo Luigi Pagano – che il libro lo ha scritto prima dell’emergenza sanitaria – il carcere andrebbe gradualmente ridimensionato e sostituito da misure alternative, se non addirittura abolito. «Quello del chiudere del tutto il carcere – precisa – è un discorso iperbolico, certo. Una provocazione. Ma nel frattempo non c’è alcun alibi per non fare. Quindi bisogna lavorare per riformare, sempre pensando che si debba ridurre l’incidenza della detenzione nel sistema penale. Occorre fare a meno del carcere ogni qual volta sappiamo che non serve, ma anzi sia deleterio».
La pena detentiva, incalza nel libro, «è il riconoscimento della nostra sconfitta, delle nostre paure, della nostra incapacità a concepire qualcosa di diverso, più umano e più utile del carcere».
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La galera è violenza: le convizioni di Luigi Pagano
«Se nell’epoca dei lumi si poteva pur credere che la detenzione rappresentasse una scelta più umana se paragonata ai supplizi corporali esistenti – altra considerazione di Pagano – oggi che del carcere conosciamo tutti i danni che arreca all’umanità, non abbiamo tante giustificazioni se continuiamo a infliggere intenzionalmente del male fisico a nostri simili imprigionandoli, spesso senza neppure aver concluso il giudizio di colpevolezza nei loro confronti, sottraendo loro porzioni irripetibili della esistenza».
E ancora: «Accantoniamo degli uomini per la nostra impotenza ad aiutarli a essere diversi e con ipocrisia lasciamo che sia il tempo a cambiarli o a eliminarli, facendoli vivere in una dimensione irreale che lascerà dei segni indelebili su di loro, sulle loro famiglie e sulla stessa sensibilità sociale, perché il carcere è desocializzazione, è violenza, se ne alimenta, l’esalta e l’usa come giustificazione per la sua stessa sopravvivenza».
I principi calpestati nel libro pubblicato da Zolfo Editore
Anche il principio della non colpevolezza è stato e viene quotidianamente calpestato, come Pagano denuncia, non da adesso. «I “casi Tortora”, fondati sull’idea che “se un uomo viene catturato in piena notte vuol dire che qualcosa di grave ha commesso” (parole di Camilla Cederna), inquinano i principi fondamentali sanciti dalla nostra Carta costituzionale e su cui la nostra Repubblica fonda la sua democrazia. La colpevolezza o l’innocenza non la decidono la polizia, il pubblico ministero o l’opinione pubblica, ma un giudice e alla fine di un processo dove è l’accusa a dover portare elementi probatori a sostegno della propria tesi sottoponendoli al vaglio di un esame dibattimentale prima di essere ammessi come prove».
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Il direttore, il dramma dei suicidi e Tangentopoli
Tra i fatti più drammatici ricordati nel libro ci sono i suicidi di detenuti famosi e di detenuti “invisibili”, rimossi dalla memoria collettiva e tornati ad avere dignità nelle pagine del volume. Assieme a Gabriele Cagliari, l’ex presidente dell’Eni, viene ricordato Zoran Nicolic. Entrambi si tolsero la vita a San Vittore, nel pieno della bufera di Tangentopoli, lo stesso giorno (il 20 luglio 1993).
Su questi e altri gesti estremi e irreparabili, burocraticamente definiti “autolesivi” dall’apparato, Pagano annota: «Una sconfitta per l’istituzione, spesso si dice con superficialità liquidatoria, come se il carcere fosse un luogo che possa avere, tra le tante finalità che gli si attribuiscono, anche quella della cura della salute delle persone a cui sottrae la libertà e non sia, invece, esso stesso un ambiente patogeno. Lo dicono gli organismi internazionali e nazionali: “Le prigioni sono anche la causa di malattia e di morte: sono la scena della regressione, della disperazione, della violenza auto-inflitta e del suicidio”, denuncia il Comitato etico francese. E che il carcere faccia male – e sappia di farlo, con buona pace di coloro che continuano a pensare di aver consegnato le pene corporali alla barbarie dei tempi andati – lo confessa anche la legge italiana. Un’ammissione di colpa relegata in un angolino (l’ultimo comma dell’articolo 17 del regolamento d’esecuzione, quello dell’ordinamento penitenziario, ndr), ma molto esplicita, se riconosce che “le prolungate situazioni di inerzia e di riduzione del movimento e dell’attività fisica possono favorire lo sviluppo di forme patologiche”».
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La strage nascosta nelle prigioni italiane
Lo stillicidio è senza fine. Non bastano gli interventi via via pianificati e una maggiore attenzione ai bisogni di uomini e donne fragili e alla prevenzione. Da gennaio al 13 dicembre di quest’anno – l’anno dei 13 morti durante e dopo le rivolte di inizio marzo, una strage senza precedenti – si contano 55 suicidi in cella e 152 decessi per Covid-19 e altre patologie.
Di troppe vittime non si conoscono neppure i nomi e le storie, taciuti dall’apparato (mai da Pagano).
Riforme e ostacoli in quarant’anni di lavoro in carcere
Pensare di eliminare i rischi tenendo chiusi i detenuti in cella per quasi tutto il giorno, oltre che di notte, secondo Pagano sarebbe controproducente. Per questo ha promosso e fatto applicare il sistema a celle aperte (con i carcerati lasciati fuori dalle “camere di pernotto” più a lungo, non solo per le ore d’aria) e la sorveglianza dinamica (contestata da quei sindacati di polizia penitenziaria attaccati ai vecchi sistemi e restii ai cambiamenti).
L’ex direttore sostiene che è sbagliato pensare «di poter azzerare ogni rischio restringendo al minimo indispensabile gli spazi di libertà concedibili alle persone detenute nella convinzione errata che meno ti faccio uscire dalla cella, più riesco a controllarti e meno opportunità avrai di creare danni, farmi o farti del male. La realtà mostra che ogni giorno, per anni, in istituti come San Vittore, Regina Coeli, Poggioreale scendono ai cortili di passeggio 100, 200, 300 persone tutte insieme, senza alcun accompagnamento, e 100, 200, 300 rientrano tutte insieme senza che succeda alcunché. Mentre all’inverso accade che, nonostante un controllo a vista sulle ventiquattro ore, una persona si tagli le vene sotto le coperte e così muoia dissanguata o vada in bagno e si impicchi con l’elastico degli slip, unico indumento che le si era lasciato; o che le, rarissime, evasioni avvengano dalle celle servendosi, per calarsi nei cortili e scavalcare il muro di cinta, delle lenzuola in dotazione».
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Quei bambini dietro le sbarre
Tre dei risultati positivi raggiunti grazie a Luigi Pagano, e rimasti casi unici o isolati, sono l’avvio del carcere sperimentale di Milano-Bollate («Doveva essere la regola, è l’eccezione»), il varo del reparto “La nave” di San Vittore (con un programma di trattamento avanzato, con iniziative sperimentali e un coro di detenuti e volontari) e la creazione di un istituto a custodia attenuata lontano da porte blindate e muraglioni, una struttura per mamme detenute con figli piccoli, con ambienti meno opprimenti e con personale specializzato e agenti in borghese e non in divisa.
Un successo o un altro fallimento? L’ex direttore, che porta addosso anche il peso dei dubbi e delle riforme mancate o svilite, non elude la questione. «Al momento della inaugurazione dell’Istituto adottammo lo slogan L’abbiamo aperta perché speriamo di chiuderla al più presto, non tanto per amore del paradosso, ma perché nel frattempo diversi parlamentari si erano resi promotori di una legge che, proprio ispirandosi all’Icam, avrebbe cancellato, così veniva annunciata, in maniera definitiva l’indecenza dei bambini detenuti”!».
La legge fu varata nel 2001. «Non solo non apportò alcun miglioramento all’esistente, ma volse in peggio la logica che era annessa al varo dell’Icam. La realizzazione milanese “spostava” il nido esistente a San Vittore in una struttura esterna dove tutte le donne madri o incinte dovevano essere assegnate appena arrestate. Quindi nel nostro progetto l’Icam andava a sostituire il nido, che veniva così eliminato. La legge invece ribaltò il concetto e decise che i nidi dovessero rimanere per forza di cose in carcere perché lì andavano portati madri e bambini quando venivano arrestati. Avrebbe deciso in seguito il magistrato, sic!, e non l’amministrazione, se assegnarli o meno all’Icam».
La conclusione, legata a questo e a mille altri esempi, è amara e critica: «Le scelte di politica penale non guardano necessariamente alla realtà dei fatti. Talvolta seguono bizzarri e contorti itinerari per arrivare a conclusioni opposte rispetto alle premesse».