Proteste a Hong Kong: legge cinese sulla sicurezza frena manifestazioni
All’indomani dall’adozione della nuova legislazione sulla sicurezza nazionale cinese e dalle sue prime applicazioni ad Hong Kong, la comunità internazionale protesta contro la normativa che limita libertà e autonomia nella regione, chiedendo alla Cina un’inversione di rotta
di Margherita Forni, Francesca Bucaletti e Serena Zanirato
Il 28 ottobre, a testimonianza della crescente stretta della Cina su Hong Kong, è stato arrestato lo studente e attivista diciannovenne Tony Chung.
Chung, accusato di secessionismo, riciclaggio di denaro sporco e cospirazione, è il secondo cittadino di Hong Kong, dopo Jimmi Lai, fondatore del quotidiano Apple Daily, ad essere incriminato ai sensi della nuova legge sulla Sicurezza Nazionale, entrata in vigore il 30 giugno 2020.
L’attivista, fondatore e leader del movimento studentesco Studentlocalims, una tra le organizzazioni più esplicite nel promuovere l’indipendenza di Hong Kong, è apparso davanti a un tribunale della città che, come previsto della nuova normativa, gli ha negato la libertà su cauzione.
La prossima udienza si svolgerà il 7 gennaio 2021 e il timore è che il caso di Chung possa diventare un esempio, usato dalle autorità di Pechino per annichilire l’opposizione e i suoi leader.
Hong Kong oggi: lo statuto speciale
Oggi Hong Kong è una Regione amministrativa speciale (Ras) nella sfera di influenza di Pechino, status conferitogli il 1° luglio 1997 con l’accordo tra Regno Unito e Cina, che sancisce ufficialmente il termine dei 156 anni di dominio coloniale britannico. La Dichiarazione sino-britannica, oltre che a definire la consegna del territorio di Hong Kong alla Cina, stabilisce anche le politiche “di base” che la Repubblica Popolare avrebbe applicato a tali territori.
Parallelamente, è stata anche adottata la Hong Kong Basic Law, documento costitutivo dello status speciale di Hong Kong che stabilisce l’alto grado di autonomia di cui gode la regione in quasi tutti gli aspetti (fatta eccezione per le relazioni estere e la difesa militare) e sancisce il cosiddetto principio “un Paese, due sistemi”.
Tuttavia, l’amministrazione speciale della regione ha una scadenza, prevista per il 2047. Al termine di questi 50 anni Hong Kong cesserà di avere standard politici, economici e istituzionali diversi e più autonomi rispetto alla Cina continentale e Pechino ha dimostrato negli anni l’intenzione di erodere il grado di autonomia di Hong Kong.
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Origine ed evoluzione delle proteste
Nel 2014 i manifestanti erano scesi in strada per chiedere al governo cinese elezioni libere a suffragio universale. Con il sistema vigente, infatti, solo la metà dei rappresentanti del potere legislativo è eletto dai cittadini di Hong Kong, che non possono invece esprimersi circa il potere esecutivo.
Proprio l’assenza di un metodo di votazione a suffragio universale aveva innescato la campagna di disobbedienza civile Occupy Central, successivamente sfociata nelle rivolta degli ombrelli. Le proteste si conclusero dopo circa 79 giorni senza che nessuna modifica al sistema elettorale fosse apportata.
Hong Kong: proteste nel 2019, ma nel 2020 la nuova norma rende tutto più difficile
Nel marzo 2019, le manifestazioni sono scaturite in seguito alla proposta di modifica della legge sull’estradizione, abolita nel luglio dello stesso anno. La nuova legge avrebbe reso possibile l’estradizione verso paesi con cui Hong Kong non ha, ad oggi, accordi bilaterali di estradizione, come la Cina continentale e Taiwan.
Le proteste sono sorte per il timore diffuso che le richieste di estradizione verso la Cina continentale potessero dare adito a violazioni dei diritti umani, fornendo inoltre un pretesto per raggiungere i dissidenti politici, residenti o fuggiti ad Hong Kong. In aggiunta, i protestanti chiedevano le dimissioni del capo dell’esecutivo filo-cinese Carrie Lam e la garanzia di maggiori libertà democratiche.
Ad oggi, a causa del Covid-19 e della nuova legge sulla Sicurezza nazionale, le proteste hanno subito un forte colpo di arresto.
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Cosa succede oggi a Hong Kong: la situazione cambia con la legge sulla sicurezza nazionale
La legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong è stata varata a Pechino dal Comitato permanente del Congresso nazionale del Popolo appena poche settimane dopo il suo annuncio, senza che il suo contenuto venisse reso pubblico fino al giorno stesso dell’emanazione.
Le disposizioni estremamente ampie e vaghe hanno portato l’attivista Joshua Wong a definire l’adozione di questa legge come la «la fine di Hong Kong e l’inizio dell’era del terrore». Secondo Amnesty International l’utilizzo del concetto di sicurezza nazionale sarebbe solo un pretesto per nascondere il reale intento del governo cinese di reprimere l’opposizione politica.
Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, le libertà fondamentali risultano così subordinate alla sicurezza nazionale, innanzitutto perché la legge prevede la punizione dei reati di “secessione”, “sovversione”, “terrorismo” e di “collusione con un Paese straniero” con la pena massima dell’ergastolo. Questi crimini, così poco definiti, rischiano di essere facilmente oggetto di interpretazioni arbitrarie e discriminatorie.
Inoltre, la normativa fornisce al governo cinese l’autorizzazione di stabilire ad Hong Kong un ufficio per la Salvaguardia della sicurezza nazionale fuori dalla giurisdizione locale, immune da qualunque accusa di violazioni di diritti umani.
La legge sulla sicurezza prevede, infine, l’imposizione della giurisdizione del governo cinese anche su individui non residenti ad Hong Kong. Ciò significa che qualunque persona, ovunque si trovi nel mondo, può essere accusata di aver violato la legge e essere quindi arrestata e processata se si trova sotto la giurisdizione cinese anche solo temporaneamente.
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Proteste sospese a Hong Kong: c’è il rischio di essere arrestati
Il primo e più evidente dei risvolti pratici di questa legislazione è stato l’immediato effetto dissuasivo che ha avuto sulla popolazione che, proprio a causa della vaghezza delle nuove disposizioni, non sapendo quali azioni potrebbero costituire un reato, ha sospeso qualsiasi azione di protesta o di supporto al movimento pro-democrazia.
La paura di essere perseguiti per aver “messo in pericolo la sicurezza nazionale” è ulteriormente amplificata dal provvedimento, poichè i sospettati possono essere estradati e processati all’interno del sistema giudiziario e secondo la legislazione della Cina continentale. Questo può significare essere soggetti a detenzione arbitraria o segreta e, spesso, a torture e trattamenti disumani.
Un ulteriore effetto prodotto dall’introduzione della normativa è il rafforzamento dei poteri di sorveglianza del governo cinese e di quello di Hong Kong in diversi ambiti, tra cui scuole e università, giornali e social media.
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Hong Kong: proteste dalla comunità internazionale
In seguito all’adozione da parte della Cina della nuova legge, numerose sono state le reazioni della comunità internazionale.
Il primo ministro britannico Boris Johnson, insieme al ministro degli Affari esteri, Dominic Raab, hanno da subito fortemente condannato la nuova legislazione cinese poiché particolarmente restrittiva per la libertà di associazione e di espressione dei cittadini di Hong Kong, descrivendola come una «chiara e grave violazione» della Costituzione della regione, nonché della Dichiarazione congiunta sino-britannica.
Il principio “un Paese, due sistemi” è stato invocato dal primo ministro britannico in quanto violato dalla nuova politica cinese. Proprio per il legame tra il Regno Unito e la regione, Johnson ha dichiarato che «se la Cina dovesse continuare su questa strada, introdurremo un nuovo percorso per coloro che hanno lo status di cittadino britannico (d’oltremare) per entrare nel Regno Unito, concedendo loro […] successivamente di richiedere la cittadinanza». Allo stato attuale, quasi 3 milioni di residenti di Hong Kong hanno diritto al passaporto britannico e a febbraio i titolari dei passaporti erano 349.881.
Gli Stati Uniti, nel condannare la nuova politica, hanno invitato la Cina a invertire la rotta. Il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Ullyot, ha dichiarato che «come Pechino ora tratta Hong Kong come “Un Paese, Un Sistema”, così devono fare gli Stati Uniti», applicando dunque le medesime limitazioni applicate alla Cina continentale.
La presidente della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi, ha affermato che «gli Stati Uniti continueranno a intraprendere azioni forti contro coloro che hanno soffocato la libertà e l’autonomia di Hong Kong», chiedendo anche l’imposizione di sanzioni.
Dal lato Ue, il presidente del consiglio europeo, Charles Michel, ha definito la normativa deplorevole poiché, oltre a ridurre l’elevata autonomia di Hong Kong, ha effetti dannosi per l’indipendenza del potere giudiziario e lo Stato di diritto.
La presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, ha sottolineato, invece, gli effetti negativi che una tale legislazione può avere sulla Cina, in termini di fiducia e reputazione negli affari esteri e nella percezione pubblica che avrà a Hong Kong e a livello internazionale.
Infine, la questione è stata sollevata anche durante l’ultimo Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, tenutosi tra il 14 settembre e il 6 ottobre. La dichiarazione congiunta presentata da 27 Paesi, inclusi Regno Unito, Francia, Germania e Giappone, sollecita «i governi di Hong Kong e cinese a riconsiderare l’imposizione di questa legislazione e a coinvolgere il popolo, le istituzioni e il sistema giudiziario di Hong Kong per prevenire un’ulteriore erosione dei diritti e delle libertà di cui la popolazione di Hong Kong gode da molti anni».
I motivi delle proteste contro la protagonista di Mulan
L’attrice cinese Liu Yifei, protagonista del recente remake del film Disney “Mulan”, nell’agosto 2019 aveva postato sulla sua pagina social «Anche io supporto la polizia di Hong Kong». Nell’immediato Liu ha dovuto affrontare rapidamente il contraccolpo di chi, in tutto il mondo, sostiene le proteste: «Potrebbe essere una voce potente per la giustizia, ma invece sostiene questa brutalità».
Quando lo scorso settembre è uscito sulle piattaforme digitali il remake, è riemersa anche la campagna contro l’attrice che si è schierata contro le proteste e la democrazia. Per questo è emerso l’hashtag e la campagna #BoycottMulan, che invita esplicitamente a boicottare il film e la sua produzione, che ha comunque scelto l’attrice come protagonista, nonostante le sue posizioni politiche così contrarie alla democrazia.