Nagorno Karabakh: guerra feroce e senza uscita alle porte dell’Europa

È ormai un mese che armeni e azeri hanno ricominciato a combattere per la regione del Nagorno Karabakh. Un conflitto che affonda le sue radici nella storia del secolo scorso. E che ora vede fallire tutti i tentativi di cessate il fuoco. Mentre sul campo si contano già migliaia di morti, soprattutto tra i civili

da Stepanakert, capitale dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh

Non è bastato neppure l’intervento di Donald Trump a portare la pace in Nagorno Karabakh dove, da ormai un mese, è in corso una feroce guerra che ha già causato migliaia di vittime. All’indomani dell’annuncio del presidente americano di un nuovo cessate il fuoco nella regione, si è registrata un’immediata violazione della tregua e il presidente azero Ilham Aliyev ha parlato alla nazione senza nascondere la volontà di proseguire nello scontro.

L’escalation del conflitto si è registrata il 27 settembre, quando una serie di attacchi da parte dell’esercito di Baku (capitale dell’Azerbaijan), con l’appoggio della Turchia, hanno rotto la situazione di stallo che si protraeva dal 2016. Quell’anno era andato in scena il “conflitto dei 4 giorni” tra Armenia e Azerbaijan, l’ultimo scontro tra i due paesi fino al mese scorso.

Ma per comprendere davvero cosa sta avvenendo in queste ore nel Caucaso meridionale occorre andare indietro nel tempo, almeno sino al 1921.

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Ilham Aliyev, presidente Azerbaijan – Foto: President of Azerbaijan (via Wikimedia)

Nagorno Karabakh: storia di una guerra

All’epoca, con l’Unione Sovietica strutturata da pochi anni, Stalin decise di assegnare la regione del Nagorno Karabakh, popolata per la stragrande maggioranza da armeni, all’Azerbaijan. Il motivo fu che l’allora Commissario del popolo per le nazionalità voleva rafforzare Baku nell’ipotetica visione di farne un avamposto da cui poter esportare la rivoluzione socialista in Anatolia.

Durante gli anni del regime sovietico, le richieste indipendentiste avanzate dalla comunità armena vennero messe a tacere da Mosca ma, alla fine degli anni ’80, con l’apertura dettata dalla perestroijka, migliaia di cittadini armeni chiesero la secessione del Karabakh dall’Azerbaijan. Le istanze separatiste vennero respinte e aumentò la tensione tra le due comunità.

Massacri e deportazioni vennero commessi sia da armeni sia da azeri e la violenza sfociò, a fine del 1991, in un conflitto che vide tra gli episodi più cruenti il massacro di Khojaly, durante il quale vennero uccisi centinaia di civili azeri.

Il primo conflitto del Naborno Karabakh e perché si combatte oggi

Alla conclusione del conflitto, nel 1994, si contarono oltre 30.000 morti, l’intero territorio ne uscì estremamente impoverito, gli armeni trionfarono, occuparono la regione e proclamarono la nascita della Repubblica indipendente dell’Artsakh, stato non riconosciuto da alcun paese al mondo, neppure dall’Armenia.

I trattati internazionali che seguirono la fine delle ostilità videro l’assegnazione del Karabakh all’Azerbaijan ed è questa la ragione per cui ancor oggi si combatte. Baku rivendica l’appartenenza della regione appellandosi al diritto internazionale. I cittadini armeni richiedono invece il riconoscimento dell’Artsakh, in nome del principio dell’autodeterminazione dei popoli.

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Baku, capitale dell’Azerbaijan

L’escalation: la guerra oggi in Naborno Karabakh

«Il 27 settembre, in modo improvviso, sono iniziati i bombardamenti sulle città del Nagorno Karabakh e non si sono mai fermati. Noi qua, all’ospedale civile di Stepanakert, dopo ogni attacco, riceviamo centinaia di feriti che riportano lesioni agli arti e anche al cervello e molti sono stati investiti dalle esplosioni delle bombe a grappolo, letali per i civili».

A illustrare la situazione a Osservatorio Diritti è il medico traumatologo Karen Daivisiyan, che raccontando la quotidianità nel nosocomio della capitale dell’Artsakh pone anche l’attenzione su uno dei problemi più gravi del conflitto: l’attacco su obiettivi civili compiuto utilizzando armi proibite come le temibili bombole a grappolo.

Mentre le sirene continuano a suonare, nei sotterranei dell’ospedale medici e infermieri lavorano senza tregua cercando di fare il possibile per i feriti. «Cerchiamo di portare i casi più gravi a Yerevan, ma non sempre è possibile. In molti casi dobbiamo ricorrere alle amputazioni degli arti per salvare le vite».

A un certo punto un vecchio furgone, un tempo utilizzato per le consegne del pane, arriva a tutta velocità. All’interno ci sono due giovani soldati con ferite terrificanti al volto e sangue dappertutto. Poco dopo, un’ambulanza arriva e trasporta un uomo esanime, un’altra vittima di un conflitto che non sta risparmiando nessuno: uomini, donne, civili e militari.

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Piovono bombe: nei bunker si infrangono i sogni

Le bombe piovono in continuazione sulle città armene bersagliate dai colpi dell’aviazione, dell’artiglieria e anche dai droni kamikaze impiegati dall’Azerbaijan, tanto che nelle vie della capitale, ovunque, ci si imbatte nei resti dei razzi Smerch, Lora e Polonez.

Più della metà della popolazione ha abbandonato la zona di guerra e si è rifugiata in Armenia e chi non ha lasciato il territorio dell’Artsakh vive sottoterra, in scantinati adattati a rifugi, tra l’angoscia delle sirene e il terrore delle deflagrazioni.

«Io non ho nulla contro le genti azere, in casa mia nessuno ha mai parlato male o fatto del razzismo contro gli azeri, mai. Io lo so che anche loro sono vittime quanto noi di questa guerra e l’unica cosa che voglio è poter vivere in pace nella mia terra».

A parlare così è Susanne che ha 29 anni, suo fratello è al fronte, sua sorella all’estero e sua madre a Yerevan con cinque nipotine. Lei trascorre le giornate con altre nove persone in un bunker e racconta: «Il tempo è infinito, non si distingue più il giorno dalla notte e io da un giorno con l’altro ho visto la mia vita e i miei sogni infrangersi».

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Ragazzo passeggia a Shushi, Nagorno-Karabakh (dettaglio) – Foto: Adam Jones (via Flickr)

Le vittime civili della guerra in Naborno Karabakh

I civili sono le vittime principali di questo conflitto e anche dal lato azero si contano dei morti tra la popolazione, 65, secondo quanto riferito dal governo di Baku, provocati dagli attacchi condotti dall’esercito armeno su Ganja, la seconda città più grande del Paese.

E mentre i cessate il fuoco vengono continuamente violati, le città sono deserte, le scuole chiuse, gli ospedali danneggiati. E sulla linea del fronte i combattimenti proseguono.

A sud, dove c’è il fronte più caldo e le truppe dell’Azerbaijan hanno riportato alcune vittorie conquistando città come Hadrut e diverse porzioni di territorio, gli scontri tra i due eserciti proseguono in modo sempre più feroce.

Colonne di volontari su autobus di linea e ragazzi di vent’anni a bordo di Lada Niva e armati di Ak-47 raggiungono le prime linee dove gli scambi di colpi di artiglieria fanno rabbrividire, echeggiano nelle gole delle montagne e sollevano detriti e colonne di fumo ovunque.

I canti e i proclami nazionalistici che vengono gridati nelle trincee infiammano gli animi e incendiano le menti ma, come in ogni guerra, c’è un proscenio e anche un dietro le quinte lontano dai bagliori delle esplosioni e dal crepitio delle armi automatiche. Ed è lì che l’orrore del conflitto si rivela in tutta la sua drammaticità: un padre, al cimitero dei caduti di Stepanakert, depone un ultimo fiore sulla tomba del figlio di 30 anni. Prova a parlare, ma con un groppo di lacrime in gola l’uomo si interrompe e cala solo un gelido silenzio tra le lapidi della capitale.

Lo stesso silenzio che centinaia di padri e madri che in queste quattro settimane hanno visto i propri figli morire sul campo di battaglia porteranno per sempre dentro di sé.

Mappa: la cartina del Nagorno Karabakh

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