Eni Nigeria, la difesa di Descalzi: “Non c’è stata corruzione internazionale”

La legale Paola Severino, ex ministra della Giustizia, chiede l'assoluzione con formula piena del suo assistito, Claudio Descalzi, attuale amministratore delegato di Eni. Il processo riguarda presunte maxi-tangenti per il blocco petrolifero Opl 245 in Nigeria. La sentenza di primo grado è prevista per gennaio

«Visto che i pm definiscono le mail di Shell “lo specchio olandese”, ricordo allora che nella pittura fiamminga lo specchio olandese era appunto lo specchio deformante». La professoressa Paola Severino, che difende Claudio Descalzi, attuale amministratore delegato di Eni, utilizza la stessa metafora impiegata dalla pubblica accusa per attaccare l’impianto accusatorio del processo Opl 245 (leggi anche Eni Nigeria: Abuja chiede risarcimento da un miliardo di dollari a Eni e Shell).

Siamo alle battute conclusive del primo grado di giudizio per le compagnie petrolifere Shell ed Eni, accusate a Milano di aver pagato una tangente da 1,1 miliardi di dollari in Nigeria per ottenere l’assegnazione del blocco petrolifero nigeriano Opl 245. La sentenza è prevista per inizio gennaio (leggi anche Eni Nigeria: chiesti 8 anni per Descalzi e Scaroni al processo per corruzione).

L’arringa dell’avvocata, professoressa ed ex ministra della Giustizia Paola Severino detta la linea di tutti i difensori legati a Eni che verranno dopo di lei. Il punto principale è lo stesso già citato da Enrico de Castiglione, legale che rappresenta Paolo Scaroni, intervenuto all’ultima udienza: la procura ha dato un’immagine distorta dell’assegnazione del blocco petrolifero (leggi anche Processo Eni Nigeria: la difesa di Scaroni nega tangenti e corruzione). Come il collega, Severino chiede l’assoluzione con formula più ampia possibile del suo assistito, «perché il fatto non sussiste».

Ritiene che le prove fornite dall’accusa, contenute soprattutto nelle mail di Shell, non siano sufficienti a definire un vero patto corruttivo, ma offrano solamente «la rappresentazione unilaterale di Shell» e non la «percezione di Eni» rispetto alla trattativa. «Le circostanze suggestive» di cui dispone la procura, aggiunge Severino, «non hanno neanche il rango di indizio». Per Claudio Descalzi l’accusa ha chiesto una pena di otto anni di reclusione.

Leggi anche: Eni Nigeria: la sentenza del processo Opl 245 assolve tutti in primo grado

Leggi tutti gli articoli sul processo Eni Nigeria in corso a Milano. Eni e Shell sono accusate di corruzione internazionale per presunte tangenti pagate per ottenere il blocco petrolifero Opl 245

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Foto di Luca Mascaro (da Flickr)

Le differenze tra Eni e Shell

L’arringa della professoressa Severino segna in modo chiaro come Shell ad Eni, per quanto coimputate, dovranno seguire strategie difensive differenti. Dall’inizio del processo le due società a volte si avvicinano, a volte si allontanano.

In questa fase le posizioni sono chiaramente distanti. I motivi sono prima di tutto di ordine storico: durante la fase che nel processo è stata definita “preistoria”, cioè dall’auto-assegnazione di Dan Etete del blocco petrolifero Opl 245, quando era ministro del Petrolio, al dicembre del 2009, Eni non è stata coinvolta in Opl 245 (leggi anche Eni Nigeria, a processo il flusso di denaro della presunta maxi-tangente).

Al contrario, Shell era dentro fin dal principio. Severino ricorda date ed eventi principali: nel 2001 Shell ha siglato un accordo preliminare con Malabu per ottenere il 40% del blocco, ma pochi mesi dopo il governo ha revocato in toto la licenza alla società nigeriana: un’esclusione che non è mai stata sostenuta da prove, secondo Severino.

Un elemento c’è ma appartiene alla cronaca, più che alla giustizia: era stato durante la conferenza stampa che un portavoce aveva parlato di «abuso delle proprie posizioni» da parte in particolare di Dan Etete, il beneficiario ultimo e reale proprietario di Malabu.

Nel 2006 il governo ha poi riassegnato la totalità della licenza a Malabu, provocando così la reazione di Shell: l’anno seguente si è aperto un arbitrato alla Banca mondiale, «che si è chiuso solo con la firma del resolution agreement», sottolinea l’avvocata di Claudio Descalzi. Il resolution agreement è l’atto dell’aprile 2011 con cui il blocco è stato completamente assegnato alle società petrolifere.

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Eni Nigeria, nessun «elefante nella stanza»

Ci si arriva dopo che «molto correttamente e molto analiticamente» Eni e il suo cliente hanno analizzato la situazione del blocco. Secondo Severino, quindi, il conflitto di interessi di Malabu e di Etete, che la procura definisce «elefante nella stanza», dopo le indagini «si sgonfia», ma non per l’accusa, che ha messo «l’elefante in vetrina», rimuovendo le parti scomode della storia, dice l’avvocata.

A queste considerazioni storiche si aggiunge anche il dato che dagli uffici di Eni l’indagine della procura non è riuscita a trovare documenti tanto dettagliati quanto quelli di Shell. L’avvocata sottolinea che quelli tra Claudio Descalzi e il suo omologo di Shell Malcom Brinded «non appaiono mai rapporti complici ma dialettici», a conferma di obiettivi diversi per i due gruppi. Lo scenario in cui entra Eni è infatti «una guerra per la licenza» in cui Shell è coinvolta dall’inizio.

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Foto: Luka Tomac/Friends of the Earth International (via Flickr)

Il ruolo di Obi nella presunta tangente Eni Nigeria

Il punto successivo dell’arringa di Paola Severino tocca Emeka Obi, quello che l’accusa ritiene essere l’intermediario con il governo nigeriano per conto di Eni. L’avvocata ritiene invece che Obi «giochi una partita tutta sua» e «voleva lavorare per se stesso», tanto è vero che il primo a coinvolgerlo è Ednan Agaev, il diplomatico russo che l’accusa ritiene essere l’intermediario di Shell.

Obi, insieme a un altro imputato, Gianluca Di Nardo, è stato precedentemente condannato in primo grado, con rito abbreviato, a quattro anni di carcere nel settembre del 2018.

«La procura ha erroneamente fatto coincidere i contatti di Obi con Eni e l’inizio dell’interesse di Eni per Opl 245. Io capisco il tentativo della procura: non essendoci prove di dazioni di denaro, la presenza di Obi è necessaria», aggiunge Severino.

La legale che difende Descalzi si riferisce al fatto che, a suo giudizio, la procura non è stata abbastanza chiara nell’individuare il momento in cui si è concluso il patto per le tangenti e il loro pagamento.

Anzi, Severino giudica ineccepibile il comportamento di Eni, e in particolare di Descalzi, perché «Eni non è mai stata succube delle richieste di Obi, che pure agiva informalmente per conto della società venditrice Malabu già dal dicembre 2009, anzi sin dall’inizio ha rifiutato ciò che Obi chiedeva in quanto non era in linea con le prassi aziendali».

Eni Nigeria, gli incontri di Obi a Milano

Obi sapeva come muoversi. Così è riuscito a ottenere per tempo una procura speciale da Malabu per rappresentare in esclusiva la società nigeriana otto giorni prima di incontrare i vertici di Eni a cena a Milano all’Hotel Principe di Savoia, compreso Claudio Descalzi. La cena era stata chiesta dall’uomo d’affari nigeriano «per rinsaldare la propria posizione».

Secondo Severino però l’attuale amministratore delegato non ha fatto nulla di male parlando con lui: «La fase era iniziale, nulla fu negoziato in quella cena perché nulla poteva essere negoziato in quella fase così embrionale, in più la cena durò poco perché Descalzi andò via poco dopo l’arrivo di Etete, di cui non era informato».

Per questo considera «zero» il valore probatorio di questo evento: se c’era un’altra triangolazione illegittima, la procura, secondo Severino, non è stata in grado di dimostrarlo. «Altro che succube alle richieste di Obi, Desclazi decide», precisa.

Secondo l’avvocata è nullo anche il valore probatorio di un altro incontro sul quale la procura spinge molto, quello del 12 giugno 2010 a San Donato, al quartier generale di Eni, come annota lo stesso Obi. Insieme a Descalzi, Obi parlava dell’ipotesi che le società petrolifere subentrassero comprando il 100% della licenza, per fare in modo di sbloccare finalmente quella licenza tanto attesa. Descalzi aveva promesso via messaggio che il giorno dopo avrebbe chiamato “GLJ”, il presidente Goodluck Jonathan.

«Parlare non significa corrompere», è il commento della Severino, secondo la quale tutto avviene alla luce del sole, senza sotterfugi.

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Goodluck Jonathan – Foto: ©Annaliese McDonough/Commonwealth Sectratariat (via Flickr)

Eni Nigeria, Armanna e «i servizi deviati»

Come il collega De Castiglione, anche Paola Severino ha dedicato una parte importante della sua esposizione alla poca credibilità di Armanna (leggi anche Eni Nigeria: tutte le “anomalie” del Cane a sei zampe nella testimonianza dell’ex manager). Al di là della “vicenda dei due Victor”, infatti, il coimputato-accusatore secondo la difesa di Descalzi ha anche affermato di aver organizzato un incontro in Nigeria tra l’allora direttore generale di Eni e l’allora presidente del paese, Goodluck Jonathan.

Questo incontro, secondo Descalzi, non è mai avvenuto. Secondo Paola Severino questo episodio dimostra il «metodo-Armanna», lo stesso dei «servizi deviati»: ha costruito una storia partendo dal verosimile per sostenere delle congetture false che reggono la sua narrazione, ritiene la legale di Descalzi.

Proprio per non dare credito alle teorie di Armanna, ex manager di Eni in Nigeria, le difese insieme hanno deciso di non contro-esaminarlo, nel luglio 2019, a seguito delle sue deposizioni. «Il Tribunale ha tutti gli elementi per giudicare», conclude l’avvocata.

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