Testimone di ingiustizia: una vita da fantasma per aver denunciato la ‘ndrangheta
Il libro “Testimone di ingiustizia" è la storia di una donna tradita dallo Stato: dopo aver testimoniato contro la malavita del Crotonese, responsabile dell'omicidio di suoi due fratelli, si è ritrovata abbandonata a se stessa. Gli autori sono Marianna F. ed Eugenio Arcidiacono (Edizioni San Paolo)
Una vita condannata all’ombra. Privata di un’identità, spogliata di relazioni sociali, sentimentali, amicizie, semplici rapporti umani. Una vita da fantasma, un po’ come quella del pirandelliano Mattia Pascal.
La colpa? Essere una testimone di giustizia, avere avuto il coraggio, la forza, la coscienza etica e civile di denunciare i responsabili dell’assassinio del suoi due fratelli, ribellandosi alle regole dettate da una cosca della ‘ndrangheta in un paese del Crotonese, in Calabria.
Testimone di ingiustizia: la storia di Marianna F. in un libro scritto a quattro mani
Lei è Marianna F., nome ovviamente di fantasia. Un’identità inesistente, così come il resto della sua vita. La sua età è intorno ai 50 anni. Vive in una località sconosciuta. Nessuno – a parte la sua famiglia, che condivide la sua stessa situazione – conosce la sua storia, le sue radici, il suo vissuto.
Eugenio Arcidiacono, giornalista di Famiglia Cristiana, un giorno ha ricevuto una sua email. L’ha incontrata, ha raccolto la sua testimonianza per un servizio e da quell’articolo è nata l’idea di un libro a quattro mani, “Testimone di ingiustizia. La mia vita da fantasma per aver denunciato la ‘ndrangheta” (Edizioni San Paolo).
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Dopo aver denunciato la ‘ndrangheta, il programma di protezione
Arcidiacono sintetizza così la vicenda della donna: «Alla fine degli anni Novanta Marianna, laureata in Lingue con un lavoro da interprete a Parigi, ha deciso di collaborare con la giustizia dopo l’assassinio dei fratelli, in accordo con i suoi genitori e sua sorella. È così entrata nel programma di protezione di testimoni e collaboratori di giustizia. Sulla base della legislazione allora vigente, è stata portata in una località lontana da casa sua, sconosciuta, e le è stato dato un nome falso, per proteggerla dalla vendetta della ‘ndrangheta».
Un cambiamento che ha cambiato per sempre la sua vita. «A queste condizioni Marianna non poteva lavorare e non aveva neppure diritto all’assistenza sanitaria, perché per l’anagrafe lei era inesistente, non aveva una vita, né diritti. Se avesse avuto dei figli questi sarebbero stati inesistenti e non avrebbero potuto neppure essere iscritti a scuola. In quanto testimone di giustizia, lo Stato deve garantirti, oltre a un sussidio, anche un lavoro idoneo alle tue capacità e competenze. A Marianna è stato procurato un lavoro come interprete nel ministero dell’Interno. Ma lei si è ritrovata a fare fotocopie, mobbizzata, costretta alla fine a rinunciare a questo lavoro. Una situazione accertata dalla Asl, che le ha riconosciuto un danno biologico per tutti i torti che ha subito».
Questa situazione ha portato la donna a prendere la decisione più pericolosa. «In seguito, il ministero dell’Interno le ha promesso altri lavori, che però non si sono mai concretizzati. Marianna ha deciso così di uscire dal programma di protezione. Per poter partecipare a concorsi pubblici, come la legge prescrive, doveva recuperare la sua vera identità, mettendo però a rischio la sua vita».
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Marianna si ritrova da sola: senza lavoro, senza amici
Suo padre, nel frattempo, è morto, con il cuore gonfio di dolore e amarezza. Un terzo fratello non ha retto psicologicamente ed è stato ricoverato in una clinica. Oggi Marianna continua a vivere in un limbo.
«Lei ha ripreso la sua vera identità per cercare un lavoro ma non riesce a trovarlo perché nel suo curriculum c’è un buco di 10 anni, quelli durante i quali lei era nel sistema di protezione e sui quali non può dare spiegazioni», racconta ancora Arcidiacono.
E le difficoltà non sono solo di tipo lavorativo. «Ogni mattina esce di casa, dice ai vicini che va a lavorare al ministero dell’Interno, anche se non è vero. Gira per le strade, va in biblioteca. Quando qualcuno si avvicina troppo a lei e comincia a farle domande personali, Marianna si spaventa, tronca qualunque rapporto e cambia strada».
«Ha una casa che ha comprato con i soldi del risarcimento erogato dal programma di protezione. C’è poi la casa dove vivono sua madre e sua sorella. Ha chiesto di poter vendere la sua abitazione nel Crotonese, ma nessuno la vuole acquistare».
Ora – notizia recentissima – pare che lo Stato abbia accettato di acquistarla (per poi rivenderla ad associazioni). Ma la casa è stata devastata dagl uomini della ‘ndrangheta e dopo vent’anni è in condizioni pessime.
Il suo sogno sarebbe fare la guida turistica. Oppure, se potesse tornare nella sua Calabria, vorrebbe aprire un bed & breakfast. Ma nel suo paese ancora spadroneggia la stessa cosca di tanti anni fa e il Comune nel 2018 è stato commissariato».
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Arcidiacono: «Assurdo trattare i testimoni come collaboratori di giustizia»
Quando Marianna ha denunciato, spiega il giornalista, per lo Stato non c’era differenza fra testimone e collaboratore di giustizia. «Il trattamento delle due figure era identico e questa è un’assurdità. Il testimone di giustizia ha un valore maggiore rispetto al pentito, che è una persona che ha compiuto dei reati e che decide di collaborare per avere sconti di pena. Il testimone non ha commesso alcun reato e dalla sua collaborazione non guadagna niente».
Nel 2018, spiega Arcidicono, è arrivata la nuova legge che distingue le due figure, pentito e testimone di giustizia, e concede una serie di garanzie importanti, quelle che Marianna non ha avuto: lo Stato è obbligato a trovare al testimone un lavoro idoneo alle sue competenze nel luogo in cui vive.
Il testimone dunque non viene più sradicato dal suo territorio e portato in località lontane, ma viene per quanto possibile tenuto nel suo ambiente. Viene inoltre seguito da una psicologo e da un tutor che lo aiuta nelle questioni burocratiche.
Vite da fantasma: 50 testimoni di ingiustizia come Marianna
Ma la legge non ha effetto retroattivo. E a Marianna queste garanzie continuano a essere negate. E non solo a lei. «Oggi in Italia ci sono almeno 50-60 persone, testimoni, che vivono come fantasmi. Pochi giorni fa ho letto la storia di un testimone di giustizia che era stato trasferito a Savona, dove ha aperto un’attività. Ma un giorno per la strada ha incontrato quegli stessi camorristi che lui stesso aveva denunciato e che, nel frattempo, erano diventati collaboratori di giustizia e a loro volta trasferiti proprio a Savona».
Enzo Ciconte: «Le vittime della mafia non sono solo quelle uccise»
Scrive nella prefazione al libro Enzo Ciconte, docente di Storia delle mafie italiane all’Università di Pavia: «Quando si parla di mafia il pensiero corre subito alla violenza assassina che spegne la vita di altri mafiosi o di vittime innocenti».
Negli ultimi anni si è dato molto risalto ai collaboratori di giustizia, i cosiddetti pentiti. «Pochi, però, si sono interessati di un altro tipo di vittime, quelle che hanno trovato la forza e il coraggio civile di denunciare e di indicare i colpevoli di omicidi o di altre nefandezze compiute dai mafiosi».
Questo volume, resoconto di una storia reale scritto con la forza narrativa di un romanzo, attraverso un’esperienza particolare vuole portare alla luce i tanti casi di testimoni di giustizia che, come Marianna, hanno pagato e continuano a pagare il loro atto di coraggio con l’abbandono da parte dello Stato.
Sottolinea ancora Ciconte: «Perché le vittime non sono solo quelle uccise […] ma sono anche quelle che, sopravvissute, dopo aver reso la propria testimonianza sono state costrette a vivere una vita schiacciata dalla paura di essere riconosciute e a loro volta uccise, e annichilite dall’umiliazione di uno Stato schizofrenico che agisce in modo confuso e contraddittorio e non ha la capacità di difendere e di proteggere chi ha avuto il coraggio di fidarsi di lui».
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La rivincita delle donne calabresi
Con la vecchia legislazione, osserva Arcidiacono, se testimoniavi avevi la vita stravolta e senza nemmeno la certezza di essere protetto. «Oggi, con la nuova legge, le persone che denunciano sono aumentate perché ci si fida di più dello Stato. Questo grazie anche a un cambiamento culturale e nella coscienza civile delle nuove generazioni, soprattutto dopo gli omicidi dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino».
C’è stato anche un altro importante cambiamento. «È avvenuto anche un radicale mutamento nella coscienza femminile: le donne calabresi non sono più sottomesse. Da un lato, quelle delle cosche sono diventate boss loro stesse. Dall’altro, oggi sempre più spesso le mogli dei boss in carcere o denunciano o convincono i loro figli a denunciare e a rinnegare lo stile di vita dei loro genitori, allontanandosi dal luogo di origine».
Marianna intanto continua la sua battaglia, dall’ombra alla quale è stata condannata. Eppure, se tornasse indietro, rifarebbe tutto. Aggiunge Arcidiacono: «Non ha mai avuto rimpianti, non si è pentita della scelta fatta. Un giorno mi ha detto: “Mettiti nei miei panni, come avrei potuto continuare a vivere e a dormire serena sapendo che due miei fratelli erano stati ammazzati e io potevo rendere loro giustizia?”».
Anche io sono un fantasma, proprio come te.. sono un testimone ancora nel sistema tutorio ho subito e subisco ancora da parte delle istituzioni indifferenza e disinteresse.. l unica cosa che mi è rimasta è la dignità di poter gurdare i miei figli senza vergogna senza paura..vivo il mio giorno come se fosse l ultimo, a nulla servono le leggi se non si applicano … attendo la mia ora con rassegnazione …sono pronto da 7 anni consapevole di ciò che mi aspetta..rifarei tutto dall inizio..