Stato di emergenza: Italia alla prova del diritto sulla proroga al 15 ottobre
L’Italia ha prolugato ancora lo stato di emergenza dichiarato per la prima volta a fine gennaio. Una decisione che mette però l'esecutivo a rischio violazione sul fronte del diritto internazionale. Ecco cosa dice la giurisprudenza e cosa potrebbe essere contestato al Governo
di Antonio Freddi
Il 31 gennaio 2020 il Consiglio dei ministri ha dichiarato lo stato di emergenza per la durata di sei mesi (come da legge 225/1992), che, alla scadenza del 31 luglio, è stato prorogato al 15 ottobre. Dopo l’approvazione parlamentare di Senato e Camera, il governo ha deciso di mantenere in vigore le varie misure eccezionali che derogano all’ordinamento vigente e, soprattutto, si è riservato la possibilità di emanarne ulteriori facendo ricorso a modalità urgenziali (per esempio il Dpcm, che è solo fonte secondaria del diritto).
Tali misure riguardano l’educazione, la sanità, il lavoro, le attività culturali e ricreative e le libertà personali. Anche se all’apparenza il passaggio parlamentare offre maggiore copertura istituzionale e democraticità formale, in realtà il coinvolgimento dell’organo legislativo nell’eccezionalità comporta un’invasione dell’emergenza e della contingenza nel piano del diritto e dell’attività legislativa a lungo termine.
Quado lo stato di emergenza si cronicizza
Il suggello del parlamento italiano sul prolungamento delle misure emergenziali le normalizza: l’eccezione diventa nuova norma. Sfortunatamente questa cronicizzazione dell’emergenza tende a essere una pratica ormai consolidata (vedi G. Agamben, “Stato di eccezione”, 2003).
Basti pensare alle leggi eccezionali promulgate in numerosi paesi durante la sedicente “guerra al terrorismo“, quando l’impiego di sistemi di sorveglianza e le restrizioni a diritti politici e diritti civili fu esteso oltre le necessità temporali.
Questa volta la “guerra”, metafora che alimenta il bisogno di misure drastiche, è stata dichiarata al virus, ma colpisce molti aspetti della socialità e del vivere collettivo, deformando e limitando l’applicabilità di vari diritti: diritto al lavoro, a condizioni di lavoro giuste e favorevoli, a riunirsi e organizzarsi in ambito lavorativo, all’educazione, alla vita familiare, alla salute, alla vita culturale, alla libertà di movimento e di aggregazione.
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Diritto alla salute in Italia: troppi tagli ai finanziamenti
Esiste un punto ancor più emblematico che merita di essere approfondito osservando le convenzioni internazionali.
La Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (Icescr) non prevede la possibilità di deroghe e, anzi, all’articolo 2 impegna gli stati a impiegare il «massimo delle risorse disponibili, nell’ottica di raggiungere progressivamente la piena realizzazione dei diritti».
Il mancato impiego da parte dell’Italia del massimo delle risorse disponibili per garantire il diritto alla salute è dimostrato dalla progressiva diminuzione dal 2010 a oggi del rapporto tra finanziamento al Servizio Sanitario Nazionale (Ssn) e Pil, con valori al di sotto del tasso di inflazione.
È senz’altro vero che l’impegno dello stato nel garantire il diritto alla salute in caso di epidemie dovrebbe essere valutato anche alla luce della possibilità di prevedere tali eventi. Tuttavia, come l’Organizzazione mondiale della sanità si premura di avvertire a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, il mondo globalizzato è esposto in maniera crescente alla rapida diffusione di gravi epidemie. Si tratta quindi di un evento non frequente ma prevedibile e annunciato, la cui mitigazione dovrebbe essere inclusa nel dovere degli Stati di garantire il diritto alla salute.
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Stato di emergenza e Covid: cosa dicono gli organismi internazionali
Negli ultimi vent’anni l’indebolimento del sistema sanitario italiano è stato ripetutamente rilevato e comunicato con preoccupazione da vari organismi internazionali dei quali l’Italia fa parte. Nel luglio 2017, il Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione delle discriminazioni contro le donne (Cedaw), nelle conclusioni al settimo rapporto sull’Italia espresse il suo allarme per la riduzione di fondi pubblici dedicati alla sanità e raccomandò l’aumento del budget dedicato al settore sanitario al fine di garantire la piena realizzazione del diritto alla salute (che al paragrafo 2 dell’articolo 12 dell’Icescr include la prevenzione, il trattamento e il controllo delle epidemie).
Nell’ottobre 2015 il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti economici, sociali e culturali (Cescr) nelle conclusioni al quinto rapporto sull’Italia espresse la sua preoccupazione per i tagli di budget sanitario dell’Italia nel contesto delle misure di austerità.
Queste preoccupazioni furono ribadite nei documenti preparatori (dicembre 2019) e nei lavori (in piena crisi Covid-19) della 43° Revisione Periodica Universale (Upr) del Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu (leggi anche Diritti umani in Italia: all’Onu piovono raccomandazioni sui diritti violati).
In precedenza, nel dicembre 2004, il Cescr aveva espresso la raccomandazione di sviluppare servizi di assistenza agli anziani su base domiciliare: un consiglio che sarebbe stato utile seguire, considerato che le case di cura collettive per anziani sono state fonte di altissima mortalità durante i giorni più tragici della crisi.
Nel precedente report del 2000, lo stesso comitato esprimeva la propria preoccupazione per gli effetti che la privatizzazione di una parte del sistema sanitario avrebbe prodotto per le categorie più vulnerabili (tra le quali gli anziani, i più colpiti dalla pandemia).
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Si noti anche che l’articolo 2 della Icescr contiene il principio di progressività (o non regressività): sebbene sia ragionevole aspettarsi che la piena realizzazione dei diritti non sia ottenibile dall’oggi al domani, bensì attraverso un processo di progressivo miglioramento, l’involuzione dei diritti va direttamente contro quanto contenuto nella convenzione e ne costituisce una violazione.
La decrescita relativa del budget dedicato, i tagli dovuti all’austerità e la diminuzione della tutela per le categorie più vulnerabili sono stati atti che hanno involuto la realizzazione del diritto e contribuito alla creazione della crisi sanitaria. Le stesse politiche volte a iper-razionalizzare i servizi sanitari, rendendoli il più possibile economici nel fronteggiare con le minori risorse possibili il normale lavoro di routine, hanno condotto all’incapacità di rendere un servizio adeguato di fronte all’emergenza.
Alla fine, la vita e i fatti hanno dimostrato, a conferma della ragionevolezza delle raccomandazioni dei comitati, che in Italia il diritto alla salute non è pienamente realizzato a causa degli insufficienti investimenti economici nel settore e delle politiche di razionalizzazione, austerità, e privatizzazione. Non vale l’obiezione della universalità della pandemia: l’insufficienza dei sistemi sanitari di altri paesi (non tutti, tuttavia) non diminuisce la forza del dovere di realizzare pienamente i diritti nel singolo stato.
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Emergenza sanitaria e concorso di colpa dello Stato
Una delle condizioni affinché uno stato possa legittimamente avvalersi del diritto di deroga secondo la Cedu è che lo Stato stesso non abbia contribuito a creare la situazione di emergenza. A questo proposito si veda il cosiddetto “caso greco” presso la Commissione europea dei diritti dell’uomo (Danimarca, Norvegia, Svezia e Olanda c. Grecia, 1968). Non è chiaro se questa imputabilità di una crisi allo Stato stesso debba riguardare solo le cause prossime o anche quelle strutturali, se il criterio si possa estendere anche alle limitazioni dei diritti che non necessitino di deroga e infine se la difesa del diritto alla vita, a rischio durante un’epidemia, non costituisca un’eccezione all’eccezione.
Tuttavia, non è peregrino pensare che, a causa dell’indebolimento del sistema sanitario pubblico, all’Italia possa essere imputato un concorso di colpa nella creazione della crisi Covid-19, che si è infatti manifestata più per una oggettiva incapacità di ricezione e trattamento dei malati e di coordinamento del sistema sanitario, che per una effettiva alta letalità del virus stesso.
In tal caso, attivazione formale a parte, il ricorso allo stato di emergenza da parte dell’Italia potrebbe non godere pienamente delle deroghe altrimenti garantite dall’art. 15 della Cedu (nonché dall’art. 4 della Iccpr, per diritto consuetudinario applicabile a livello europeo).
Infine, il ricorso allo stato di eccezione proclamato dall’Italia sarebbe da considerarsi inadeguato anche nell’ottica di quei giuristi che definiscono lo stato di eccezione come derivante dall’obbligo del potere esecutivo di porre rimedio a una lacuna del diritto pubblico (in pratica l’estensione del principio di esclusione del non liquet dall’ambito giudiziario – il giudice ha l’obbligo di pronunciare il giudizio anche di fronte a una lacuna della legge – a quello esecutivo). Infatti, nel caso del Covid-19 tale lacuna non avrebbe riguardato propriamente il diritto pubblico ma piuttosto la capacità dello Stato (o incapacità colpevole) di fronteggiare la situazione con le proprie strutture.