Eni Nigeria: chiesti 8 anni per Descalzi e Scaroni al processo per corruzione
Chiesti otto anni per Paolo Scaroni e Claudio Descalzi, i massimi vertici dell'azienda. Una pena pecuniaria per Eni e Shell per un totale di oltre 2,1 miliardi di dollari. E a settembre toccherà alle difese. Ecco tutte le novità del processo Eni Nigeria con le richieste fatte dai pm per i tredici imputati
Otto anni per l’ex amministratore delegato di Eni Paolo Scaroni e per il suo successore Claudio Descalzi, all’epoca dei fatti direttore generale dell’azienda. Su di loro, e su tutti gli altri imputati, pesa l’aggravante della transnazionalità.
A questo si aggiunge la richiesta di confisca di 1 miliardo e 92 milioni di dollari, pari all’ammontare della presunta tangente, a carico di Eni e Shell, e la stessa cifra, chiesta in solido a tutti e tredici gli imputati. Per un totale, quindi, di oltre 2,1 miliardi di dollari.
È il passaggio più importante della richieste con cui si è concluso il secondo giorno di requisitoria dei pm Sergio Spadaro e Fabio De Pasquale in merito al processo per presunta corruzione internazionale in Nigeria: il caso Opl 245. Scaroni e Descalzi sono le figure apicali dell’epoca dell’azienda petrolifera italiana.
La Nigeria, come detto da De Pasquale in fase di requisitoria, è stata saccheggiata da una classe politica corrotta, che ha contribuito a impoverire il Paese. Questo è l’elemento che rende il processo tanto rilevante, anche sul piano internazionale.
Il processo, dopo la pausa estiva, riprenderà a settembre con le arringhe delle difese e con le richieste della parte civile, il governo della Nigeria. La sentenza (che, ricordiamo, è di primo grado) dovrebbe arrivare entro la fine del 2020.
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Eni Nigeria: perché il processo per corruzione si celebra a Milano
Il processo Opl 245 si celebra a Milano perché la sede di Eni è a San Donato Milanese. L’azienda è accusata insieme a Shell di corruzione internazionale aggravata per una tangente da 1,1 miliardi di dollari pagata nel maggio 2011. Il procedimento penale milanese potrebbe innescarne altri: anche in Olanda infatti è in corso un’inchiesta, per la quale si attende un possibile rinvio a giudizio.
In Nigeria le autorità continuano a indagare sui politici che sono ritenuti i beneficiari delle tangenti: l’allora ministro della Giustizia Mohamed Adoke Bello, l’allora ministra del Petrolio Alison Mandueke-Diezani. Altri politici che si pensa abbiano ricevuto parte delle tangenti sono l’ex presidente Goodluck Jonathan e l’ex advisor dei Servizi di sicurezza, Aliyu Gusau. C’è un problema: il poliziotto che guidava la polizia finanziaria del Paese e le indagini collegati all’affare Opl 245, Ibrahim Magu, è stato sospeso e coinvolto in una vicenda che ha i contorni del complotto contro di lui.
I personaggi nigeriani sono fuori dall’inchiesta di Milano perché la distribuzione dei soldi, se avvenuta, si è svolta fuori dalla giurisdizione italiana, in Nigeria. Tuttavia, è fondamentale per l’inchiesta milanese dimostrare che ci siano dei pubblici ufficiali (in questo caso dei politici) coinvolti. Altrimenti, per il sistema penale italiano non si configurerebbe il reato di corruzione internazionale.
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Caso Opl 245: ex ministro accusato di essere il collettore delle tangenti
L’uomo che ha ricevuto la richiesta di pena più alta è Dan Etete, ministro del Petrolio sotto il regime militare di Sani Abacha, fino al 1998. Per lui il pm Fabio De Pasquale ha formulato la richiesta di dieci anni di carcere. Condannato per riciclaggio nel 2007 in Francia, Etete è l’uomo che si è auto-assegnato la licenza Opl 245 prima di lasciare il ministero.
L’ha garantita a Malabu Oil&Gas, società di cui è socio ombra. Un elemento che appare evidente in molti passaggi del processo, tanto numerosi che il pm Fabio De Pasquale ha detto durante la requisitoria del 21 luglio di non voler nemmeno nominare i documenti dal quale si evince questo fatto. Eppure, soprattutto all’inizio del processo, le difese hanno fatto presente che Malabu era una società a sé stante, non una propaggine di Etete, la cui presenza al suo interno non sarebbe – dicono – nemmeno certa.
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Il ruolo degli intermediari nel processo Eni Nigeria
Il processo milanese è stato soprattutto un processo agli intermediari, professionisti molto richiesti in intermediazioni importanti come quella per una licenza esplorativa di un giacimento di petrolio. È un punto cruciale: la difesa delle aziende verte sul fatto che queste hanno avuto relazioni solo con il governo, argomento ritenuto inconsistente da De Pasquale durante la sua requisitoria.
Per poter comunicare con Etete, il venditore della licenza, Eni e Shell secondo la procura si rivolgono immediatamente a due intermediari: Emeka Obi per Eni ed Ednan Agaev per Shell. Il primo, insieme all’altro intermediario Gianluca Di Nardo, è stato giudicato colpevole in primo grado nello stralcio di questo procedimento che è andato a sentenza con rito abbreviato. Per il secondo la procura ha chiesto sei anni di carcere.
Ednan Agaev è una figura importante, un diplomatico russo di lunga data. Secondo la ricostruzione del pm De Pasquale, fa parte di «un asse delle spie» che partecipa alle negoziazioni delle due compagnie petrolifere. Il suo contatto in Nigeria, infatti, è Aliyu Gusau, advisor del presidente Jonathan in materia di sicurezza internazionale.
Insieme ad Agaev, sei anni di carcere sono stati chiesti dall’accusa anche per Gianfranco Falcioni, vice console onorario a Port Harcourt, nello Stato di Rivers, Nigeria meridionale. Falcioni emerge dall’inchiesta come il contatto coinvolto per liquidare la tangente attraverso la Banca Svizzera Italiana e un istituto di credito libanese, tentativo poi fallito perché l’istituto elvetico ha bloccato il trasferimento.
Altro intermediario fondamentale è Luigi Bisignani, faccendiere, personaggio con una rete di contatti sterminati, condannato in vari procedimenti in Italia. Bisignani è uno strettissimo amico di Paolo Scaroni e alla Procura risulta essere il principale sponsor di Emeka Obi. Se il nigeriano diventa a sua volta ingranaggio della macchina tangentizia sarebbe proprio grazie a Scaroni.
L’affare avrebbe dovuto portare del denaro anche per Bisignani. Per il faccendiere il pubblico ministero ha chiesto una pena di sei anni e otto mesi, con l’aggravante della “condotta di vita”, cioè il fatto che abbia già delle condanne passate in giudicato.
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L’asse delle spie entra nel processo per corruzione
Oltre ad Agaev, fanno parte dell’asse delle spie disegnato da Fabio De Pasquale anche Guy Colegate e John Coplestone, due ex agenti dei servizi segreti inglesi (MI6) di stanza ad Abuja, capitale della Nigeria, e Hong Kong. Lavoravano per Shell. Il pregresso nella capitale africana è il motivo per cui hanno avuto accesso ad Aliyu Gusau, uomo forte dell’intelligence nigeriana. La conoscenza del contesto geopolitico internazionale e l’accesso al mondo dei servizi segreti sono due elementi del curriculum che rendono figure come queste molto ricercate dalle multinazionali.
Sono alcuni scambi di informazioni tra questi due personaggi, oltre a Peter Robinson, altro top manager di Shell, a fornire quelli che per la procura sono le prove della tangente.
I documenti sono stati ritrovati dalla polizia olandese, che nel febbraio del 2016 ha perquisito il quartier general di Shell a L’Aja per la prima volta nella storia della società anglo-olandese. Qui appunto sono state ritrovate tracce di comunicazioni in cui i tre dirigenti di Shell parlavano di uno schema attraverso cui far arrivare e suddividersi i pagamenti. Per tutti e tre la procura ha chiesto una condanna a sei anni e otto mesi di carcere.
Vincenzo Armanna, l’imputato-accusatore dell’affare Opl 245
Storia a parte riguarda il caso di Vincenzo Armanna, project leader in Nigeria di Eni e senior advisor di Naoc, la controllata di Eni in Nigeria. Per lui l’accusa ha chiesto sei anni e otto mesi di carcere nonostante De Pasquale abbia passato una buona parte della requisitoria a difendere la credibilità di Armanna.
Sono state infatti le sue parole, a cui De Pasquale ha detto che hanno sempre fatto riscontro dei documenti, a indicare le «retrocessioni» a favore dei manager Eni, ossia il ritorno di una parte della tangente agli stessi pagatori. Uno schema, secondo l’accusa, che sarebbe stato architettato da Emeka Obi, insieme a Luigi Bisignani.
Armanna però, oltre a fare queste accuse, ha ritrattato, ha cambiato la sua posizione più volte, è stato al centro della vicenda dei “due Victor”, telenovela che si è protratta fino all’udienza del 29 gennaio 2020. Secondo la pubblica accusa, questi elementi sono indizi di colpevolezza per Eni, conseguenze di un tentativo di cancellare le prove.
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Le posizioni degli altri manager di Eni e Shell
Per Malcom Brinded, ex numero tre di Shell, e Roberto Casula, capo del dipartimento esplorazioni di Eni, di base in Nigeria all’epoca, la procura ha chiesto sette anni e quattro mesi di carcere. È a casa di Casula, ad Abuja, in particolare, che si sarebbe tenuto il meeting segreto durante il quale le due aziende avrebbero stabilito una strategia comune per ottenere la licenza.
Sei anni e otto mesi è stata la richiesta anche per Ciro Pagano, managing director della Nae, azienda del Gruppo Eni in Nigeria. All’interno della trattativa avrebbe sostenuto un intermediario alternativo ad Obi, Femi Akinmade, ex dipendente nigeriano di Naoc, personaggio preferito anche da Descalzi, da quanto suggerisce Armanna nelle sue deposizioni. Pagano, come Casula, avrebbe poi incontrato diverse volte politici nigeriani coinvolti nella trattativa.
Opl 245: la posizione di Eni sul caso Nigeria
A margine delle richieste dei pm, Eni ha diramato un comunicato stampa nel quale giudica «prive di qualsiasi fondamento le richieste di condanna avanzate dal pm». La sintesi è lapidaria: «Non esistono tangenti Eni in Nigeria e non esiste uno scandalo Eni».
Secondo l’azienda, la procura avrebbe «ribadito la stessa narrativa della fase di indagini, basata su suggestioni e deduzioni, ignorando che sia i testimoni, sia la documentazione emersa hanno smentito, in due anni di processo e oltre quaranta udienze, le tesi accusatorie». L’azienda precisa che
«non conosceva, né era tenuta a conoscere, l’eventuale destinazione dei fondi successivamente versati a Malabu dal governo nigeriano, pagamento che peraltro avvenne dopo un’istruttoria dell’Autorità Anticorruzione della Gran Bretagna (SOCA)».
Per rinforzare il suo ragionamento, Eni cita i provvedimenti del Dipartimento di Giustizia e dalla Sec americani che non hanno intrapreso azioni nei confronti della società.