Papua Occidentale: Indonesia accusata di razzismo e discriminazione

Sulla scia del movimento mondiale nato in seguito all'omicidio di George Floyd negli Stati Uniti, scoppiano le proteste anche in Papua Occidentale, Indonesia. Dove abusi e discriminazioni da parte delle forze di sicurezza contro la popolazione indigena hanno una storia antica. Ecco cosa sta succedendo

L’uccisione di George Floyd negli Stati Uniti ha dato vita al movimento di protesta Black Lives Matter che, dapprima nelle strade delle città statunitensi, poi in tutto il mondo, ha portato centinaia di migliaia di persone a manifestare contro il razzismo negli Usa e la disuguaglianza sociale.

Le immagini degli scontri, degli incendi, delle statue abbattute hanno attraversato il pianeta e l’enorme eco delle proteste ha fatto sbocciare movimenti analoghi contro forme di razzismo meno conosciute, ma per questo non meno brutali e drammatiche.

Uno dei movimenti più combattivi nati sulla spinta di Black Lives Matter è Papuan Lives Matter, cresciuto nella Papua Occidentale, in Indonesia, che ha visto in queste settimane i cittadini papuani scendere in strada e protestare contro la discriminazione e gli abusi razziali condotti da decenni dalle autorità indonesiane nei confronti della minoranza indigena.

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Costruzioni sull’Asewet River ad Agats, Asmat, West Papua (Irian Jaya), Indonesia – Foto: David Stanley (via Wikimedia Commons)

Papua Occidentale: storia di prevaricazione e razzismo 

Le origini delle manifestazioni che in questi giorni stanno susseguendosi nelle strade di Giacarta, e nei villaggi della provincia della Papua Occidentale, vanno ricercate molto più indietro nel tempo rispetto alla nascita del movimento Black Lives Matter.

Il razzismo nei confronti dei papuani occidentali, infatti, risale all’annessione da parte dell’Indonesia nel 1969. La Papua occidentale è un’antica colonia olandese che è stata assorbita dall’ Indonesia in seguito a un controverso referendum.

I papuani indigeni costituiscono circa la metà della popolazione e la gente del posto, che rivendica un’indipendenza politica e chiede da anni che venga fatto un nuovo referendum per separarsi da Giacarta, afferma che il razzismo è diffuso tra le autorità, la polizia e i militari governativi.

Numerose sono le accuse di violazioni dei diritti umani da parte delle autorità indonesiane e nell’agosto 2019, a seguito di presunti abusi della polizia contro studenti papuani e di un video in cui si vedevano i soldati indonesiani urlare ”scimmie!” agli studenti papuani, sono scoppiate dimostrazioni in tutta l’isola che si sono concluse con scontri nelle strade, spari e un bilancio finale di 30 morti.

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L’assassinio di Bebari in Papua Occidentale e il ruolo delle forze di sicurezza dell’Indonesia

Ronny Wandik aveva 21 anni, Eden Armando Bebari era uno studente di 19 e ad aprile sono stati uccisi dalle forze di sicurezza indonesiane mentre pescavano nella loro città natale nella Papua Occidentale. I media indonesiani hanno descritto i ragazzi come membri di gruppi criminali, ma le famiglie hanno subito smentito e hanno detto invece che si è trattato di assassini arbitrari commessi dalle forze armate regolari.

Quando è accaduto l’omicidio, il fatto è passato in sordina, causa anche dell’attenzione mediatica internazionale concentrata unicamente sull’epidemia del nuovo coronavirus, ma  quando sono divampate le proteste per l’uccisione di George Floyd ecco che gli amici di Wandik e Bebari, seguendo il solco tracciato dai dimostranti afroamericani, hanno subito manifestato il proprio sdegno attraverso lo slogan #PapuanLivesMatter, coniato per promuovere una campagna mediatica finalizzata a far luce sugli abusi da parte della polizia e dell’esercito indonesiano nei confronti dei giovani Wandik e Bebabri e dei cittadini papuani più in generale.

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Indigeni in Papua Occidentale – Foto: photobom (via Flickr)

#PapuanLivesMatter: l’hashtag diventa virale

In breve tempo l’hashtag è divenuto virale ed è stato abbracciato dalla popolazione della Papua Occidentale e anche dagli intellettuali locali. L’artista Henri Affandi ha pubblicato la sua opera d’arte, intitolata Rubbish, che raffigura un foglio con i nomi dei più noti attivisti papuani neri che sono morti per mano della polizia e dei militari dal 1960 ad oggi finire in un cestino dell’immondizia.

In una serie di tweet, Hannah Al Rashid, attore indonesiano di origini britanniche e attivista per la parità di genere, ha scritto: «Sono solidale con #PapuanLivesMatter, perché da quando mi sono trasferito in Indonesia ho osservato il modo in cui le persone di pelle più scura sono trattate ingiustamente. Sia nel modo più ovvio, con insulti razziali, sia più “sottilmente” attraverso stereotipizzazioni televisive».

E lo scrittore Bageur Al Ikhsan ha spiegato che le proteste e i movimenti antirazzisti come Black Lives Matter non possono non tenere in considerazione altre situazioni dove la segregazione e il suprematismo sono endemici, proprio come avviene in Indonesia nei confronti della minoranza papuana.

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Wayag Island, Raja Ampat, Papua Occidentale (Indonesia) – Foto: Elias Levy (via Wikipedia)

Papua Occidentale (già Irian Jaya): la cartina

Indonesia senza libertà di stampa

Alcuni dei problemi con cui si scontra il movimento papuano nel far conoscere la propria protesta sono la mancanza di libertà di stampa e la difficoltà da parte dei giornalisti occidentali di potersi recare in Papua Occidentale.

L’Indonesia infatti, negli ultimi anni, ha inasprito le restrizioni nei confronti dei cronisti stranieri e il Paese asiatico occupa, in virtù di queste politiche, il 119esimo posto su 180 nel ranking della libertà di stampa stilato da Reporters Senza Frontiere (leggi Libertà di stampa: giornalisti minacciati in Italia, in Europa e nel mondo).

I sacerdoti dell’isola di Papua sostengono le proteste

Nell’ultimo mese si sono schierati a fianco dei dimostranti che chiedono diritti e rispetto per i nativi papuani anche i sacerdoti di cinque diocesi dell’isola. Appellandosi al “Documento sulla fratellanza umana”, firmato il 4 febbraio del 2019 da Papa Francesco e dal grande Imam di Al-Azhar, Ahmed al-Tayyeb, gli ecclesiastici papuani hanno chiesto ai leader politici indonesiani di farsi portatori della promozione di una cultura di tolleranza e di pace tra le diverse comunità dell’arcipelago.

Inoltre, esigono che venga favorita l’inclusione sociale e lo sviluppo della popolazione papuana attraverso il dialogo e l’educazione. I religiosi hanno chiesto anche il rilascio di sette prigionieri politici, finiti in carcere dopo aver preso parte a manifestazioni pacifiche e che ora rischiano dai 5 ai 17 anni di detenzione.

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