Banche armate: ecco perché Osservatorio Diritti aderisce alla campagna
Le esportazioni militari italiane sono sfuggite di mano: il loro valore aumenta in modo vertiginoso, i sistemi d'armamento finiscono in mano a Paesi che calpestano i diritti umani, le banche finanziano il sistema e il grado di trasparenza di questo commercio è ai minimi storici. Oggi viene rilanciata la campagna di pressione alle banche armate: partiamo da qui
La situazione è sfuggita di mano. Ai governi, innanzitutto, di qualunque colore politico. Negli ultimi cinque anni, infatti, gli esecutivi che si sono alternati alla guida del Paese hanno autorizzato un totale di 41 miliardi di euro di esportazioni di sistemi militari (per la cronaca, il record indiscusso spetta a Matteo Renzi). Una montagna di soldi, soprattutto se si pensa che nei 25 anni precedenti si erano superati di poco i 64 miliardi.
Le banche, dal canto loro, pare siano tornate in larga parte al business as usual. E dopo avere sperimentato per alcuni anni direttive e regolamenti interni interessanti, costruiti per dimostrare di avere una chiara e solida “responsabilità sociale d’impresa”, come dice chi studia, pare non riescano più a resistere alle sirene del guadagno. Come dimostrano le ultime tabelle del ministero dell’Economia e delle finanze sulle esportazioni definitive per il 2019 segnalate dagli istituti di credito. Un elenco da cui svetta incontrastata Unicredit, in compagnia comunque di una buona rappresentanza del credito italiano.
Banche, politica e commercio d’armi: trasparenza cercansi
In questa situazione tutti brancolano nell’ombra. Al riparo di una mancata trasparenza, che è sempre più fitta.
Quali sono i Paesi verso i quali è vietato esportare? Il governo non lo dice, probabilmente per tenere buone relazioni diplomatiche con gli altri Stati e, ancor più, con potenziali acquirenti. E accade così che l’export di armi degli ultimi quattro anni sia finito in oltre la metà dei casi in Africa settentrionale e Medio Oriente, aree del mondo ad altissimo rischio di violazioni dei diritti umani (basti pensare ai Paesi impegnati nella guerra in Yemen, all’Egitto di al-Sisi o alla Turchia di Erdogan). Ebbene, vendere armi in zone così “calde” è vietato dalla legge 185/1990, così come dalla nostra Costituzione.
Ancora, tornando alla tabella delle esportazioni segnalate dalle banche, i valori sono divisi tra “importi segnalati” e “importi accessori segnalati”: quale sia la differenza, però, non è dato sapere.
Ma la mancanza di informazioni va ancora più in profondità. Oltre a non dichiarare con precisione quantità e valore per ogni sistema militare autorizzato ed esportato a ogni singolo Paese, una cosa già di per sé gravissima, il governo non dice neppure che cosa esportiamo. Eppure, è facile capire che ci sono differenze enormi tra un sistema d’armamento e un altro. Un elicottero per salvare vite e uno d’attacco che può essere usato in guerra non sono la stessa cosa, ma nella relazione sono classificati entrambi come “aeromobili”. E di esempi così se ne potrebbero fare parecchi.
La campagna di pressione alle banche armate
L’idea che sta alla base della campagna di pressione alle banche armate credo sia valida: chiudere il rubinetto da cui attinge questo sistema, o almeno rallentare il flusso che lo mantiene, può costringere la macchina a fermarsi a riflettere. Come aveva già fatto, del resto, prima che la crisi economica rimescolasse nuovamente le carte una dozzina d’anni fa (la campagna era stata lanciata la prima volta nel 2000).
Non bisogna dimenticare, infatti, che il ruolo degli istituti di credito e degli intermediari finanziari in genere è fondamentale in questo grande Risiko. Da una parte, sono loro, spesso insieme a enti pubblici, a sostenere economicamente la produzione di sistemi d’armamento. Dall’altra, inoltre, operano con intermediazioni nell’export militare, fornendo anticipi, crediti e sicurezza nei pagamenti (sono queste le cosiddette “banche armate”, che finiscono nella relazione che il governo presenta annualmente al Parlamento).
Gli istituti di credito, naturalmente, non sono costretti ad accettare qualunque cliente. Tant’è che esistono già banche di piccole e medie dimensioni che hanno deciso di escludere il settore militare da quelli da finanziare. Così come hanno scelto di fare, con sfumature diverse, anche importanti fondi sovrani, come quello norvegese, uno dei più grandi al mondo.
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Se non vendiamo noi le armi, ci guadagneranno altri?
Questa è una critica che viene mossa spesso quando si affronta il tema della vendita di sistemi d’armamento a Paesi in guerra o che calpestano i diritti umani. Ma non sta in piedi. Non regge da un punto di vista pratico: se saranno in tanti a chiedere alla propria banca di cambiare, minacciando di spostare i risparmi in un altro istituto, queste potranno essere indotte a stringere i rubinetti al settore militare, producendo così dei cambiamenti visibili.
E crolla da un punto di vista etico. Secondo la stessa logica, per esempio, dovremmo giustificare chi vende cocaina ai ragazzini: se non lo facciamo noi, lo farà qualcun altro, quindi tanto vale guadagnarci.
Ecco, è per tutto questo che Osservatorio Diritti aderisce alla campagna di pressione alle banche armate, che viene rilanciata oggi nell’ambito di due eventi (uno a Roma alle 10.30, l’altro a Brescia alle 14, ma anche in videoconferenza), in occasione dei 30 anni dall’approvazione della legge 185/90.
Un modo concreto con cui ciascuno di noi, nel proprio piccolo, potrà chiedere trasparenza alla politica e cambi di rotta alle proprie banche. Per tornare a riprendere le redini di questa situazione che, come detto, sembra davvero essere sfuggita di mano.