Gender pay gap: l’Europa bacchetta l’Italia sul divario retributivo
L'ultimo rapporto del Comitato europeo per i diritti sociali esamina la parità di genere sul posto di lavoro in 15 Stati membri. Risultato: solo la Svezia rispetta le normative, mentre in Italia c’è poca trasparenza e mancano azioni concrete
Quattordici su quindici: è questo il numero di Paesi europei che violano le regole relative all’equità salariale e alle discriminazioni di genere sul posto di lavoro stabilite dalla Carta sociale europea. I risultati emergono da uno studio condotto dal Comitato europeo per i diritti sociali (Ecsr) sulla base di una serie di segnalazioni ricevute dalla ong University Women of Europe (Uwe).
I Paesi considerati sono, in ordine alfabetico, Belgio, Bulgaria, Cipro, Croazia, Finlandia, Francia, Grecia, Irlanda, Italia, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovenia e Svezia.
Sebbene, almeno a livello teorico, tutti gli Stati hanno in vigore una legislazione in linea con gli standard promossi dalla Carta sociale per quanto riguarda l’eliminazione della diversità nel pagamento del lavoro basata sulla differenza di genere, a livello pratico soltanto la Svezia rispetta pienamente le linee guida.
Gli altri 14 Stati presentano invece violazioni di vario tipo: progressi insufficienti verso l’uguaglianza di genere, mancanza di trasparenza nel mercato del lavoro e pene o risorse insufficienti per risolvere davvero il problema.
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Gender pay gap in Italia: la situazione secondo i dati Eurostat
Secondo i dati più recenti offerti da Eurostat e rielaborati dall’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere, nel 2017 il gender pay gap – un indicatore che misura la differenza tra la paga oraria ricevuta da uomini e donne – in Italia era pari al 5 per cento: una percentuale ben al di sotto della media europea, che toccava il 16 per cento.
Valori più alti sono raggiunti invece dall’overall earnings gap, ossia la differenza media tra stipendi annuali di uomini e donne: nel 2014, questo era pari al 43,7% in Italia, contro una media europea del 39,6 per cento.
I dati relativi al nostro Paese, però, sono stati considerati inaffidabili da parte della University Women of Europe e dall’Ecsr, che hanno evidenziato violazioni nei confronti dell’Articolo 4, sezione 3, e dell’Articolo 20, comma c, della Carta sociale europea. Ecco, in dettaglio, in cosa il nostro Paese deve migliorare per rispettare pienamente gli standard di parità di genere sul luogo di lavoro.
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In Italia manca trasparenza sul gender pay gap
Per quanto riguarda il primo punto, l’Articolo 4 della Carta è intitolato “Diritto a un’equa retribuzione“. Nella sezione 3, i firmatari si impegnano «a riconoscere il diritto dei lavoratori maschili e femminili a ricevere la stessa retribuzione a parità di lavoro».
Da questo punto di vista, il Comitato ha criticato l’Italia non tanto a causa della presenza effettiva di differenze di trattamento determinate dal genere, quanto per la mancanza di trasparenza a riguardo: le informazioni disponibili su questo tema si limitano a quelle contenute nel quadro legislativo e mancano quindi chiarimenti, dati e statistiche che certifichino come e in che misura il nostro Paese sta rispettando le regole europee.
La University Women of Europe, che ha presentato le critiche al Comitato, chiede quindi all’Italia di fornire documenti precisi e dettagliati che possano dimostrare l’effettivo rispetto della parità di trattamento tra uomini e donne sul luogo di lavoro.
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Pari oppurtunità e parità di trattamento: dati poco affidabili
L’articolo 20 della Carta sociale europea è intitolato “Diritti a pari opportunità e parità di trattamento sul luogo di lavoro, senza discriminazioni basate sul sesso”. Il comma c, poi, chiarisce che la parità deve essere riflessa anche dalle «condizioni di lavoro, inclusa la retribuzione».
In questo caso, la Uwe accusa il governo italiano di pubblicare dati poco affidabili, decidendo arbitrariamente quali parametri includere e su quali invece sorvolare – come l’universo del lavoro irregolare, nel quale ricadono spesso il lavoro domestico, come badanti o addetti alle pulizie – in modo da insabbiare una differenza salariale non indifferente.
«Per capire realmente la differenza tra i salari è necessario modificare e definire gli indicatori e i dati utilizzati. Il governo non indica la metodologia seguita per calcolare il gap», afferma la Uwe nel rapporto rilasciato dall’Ecsr.
Secondo la ong, il dato che indica il gender pay gap in Italia come fermo al 5,5% nel 2015 – contro una media europea del 16,3%, non è affidabile.
Disoccupazione femminile e stereotipi di genere in Italia
Il Comitato, inoltre, punta l’attenzione su un’altra serie di problemi che rendono difficile la vita delle donne italiane lavoratrici: la mancanza di parità di trattamento, evidenziata dall’alta percentuale di disoccupate – specialmente nelle regioni del Sud – o dal tramandarsi di stereotipi di genere che vedono le donne relegate al ruolo di madri e casalinghe.
«Il Comitato crede che, nonostante l’Italia prometta da molto tempo di mettere in atto misure pratiche volte a incoraggiare la partecipazione delle donne nel mercato del lavoro e promuovere così la parità di genere, i dati relativi alla disoccupazione femminile rimangono ancora troppo alti» si legge nel report.
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Donne e lavoro in Europa: oltre al gender pay gap c’è la difficoltà di arrivare ai vertici aziendali
Oltre al gender pay gap, l’Escr individua un altro punto critico che indebolisce il mercato del lavoro, italiano ma anche europeo: la vertical segregation, ossia la difficoltà per le donne nell’arrivare a ricoprire posizioni di controllo al vertice di aziende, imprese o istituzioni.
Il Comitato europeo per i diritti sociali nota che, nei Paesi che hanno adottato misure legislative vincolanti in merito, il numero di donne manager è salito da una media del 9,8% nel 2010 al 37,5% nel 2018.
Negli Stati dove è stata promossa l’eliminazione della vertical segregation senza approvare misure vincolanti, invece, il dato è cresciuto più lentamente, passando dal 12,8% al 25,6%.
Infine, nei Paesi che non hanno preso alcuna iniziativa in merito, la situazione è stagnante: in dieci anni, l’aumento è stato solo dell’1,5 per cento.