Amnesty International: milioni in piazza contro la repressione dei diritti umani

Il 2019 è stato l'anno della repressione. Ma anche quello della resistenza, soprattutto da parte di giovani attivisti. È quanto emerge dal rapporto 2019-2020 di Amnesty International sui diritti umani nel mondo pubblicato oggi

Un anno di repressione da parte dei governi. Ma anche un anno di resistenza, con milioni di persone, soprattutto di giovane età, scese in piazza per chiedere diritti, giustizia e libertà. Si può riassumere così la panoramica che Amnesty International fa del 2019 sul fronte dei diritti umani nelle varie parti del globo rappresentate nel report 2019-2020.

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Asia: giovani attivisti in piazza contro la repressione

Proteste, con protagonisti i giovani, per chiedere libertà di espressione e manifestazione pacifica in tutta l’Asia. È il quadro che emerge dal rapporto che descrive la situazione dei diritti umani negli stati asiatici.

Entrando nel dettaglio dei diversi Paesi, il rapporto mette in luce realtà come quella dellIndia, dove milioni di persone hanno contestato pacificamente una nuova legge che discrimina i musulmani; in Afghanistan, i manifestanti hanno rischiato la vita per chiedere la fine della guerra decennale; in Pakistan il Movimento (non violento) Pashtun Tahaffuz, ha sfidato la repressione mobilitando l’opinione pubblica contro le sparizioni forzate e le esecuzioni extragiudiziali. Nella provincia cinese dello Xinjiang, fino a un milione di uiguri e ad altre minoranze etniche musulmane sono stati chiusi a forza nei cosiddetti campi per la “deradicalizzazione”. Lo statuto di autonomia del Kashmir, l’unico stato dell’India con una popolazione in maggioranza musulmana, è stato annullato e le autorità hanno imposto il coprifuoco, tagliato l’accesso a tutte le forme di comunicazione e arrestato dirigenti politici locali.

E ancora: il sostegno di Pechino alla proposta di una legge sull’estradizione a Hong Kong, che avrebbe dato al governo locale il potere di estradare sulla terraferma persone ricercate dalle autorità cinesi, ha scatenato proteste di massa di dimensioni senza precedenti. I cittadini sono scesi in piazza per chiedere giustizia e protestare contro l’atteggiamento violento delle forze di polizia, che sono ricorse a un  «uso indiscriminato dei gas lacrimogeni, arresti arbitrari e maltrattamenti e torture durante la detenzione». Proposta di legge poi ritirata dal governo, proprio a seguito delle proteste.

Ma ci sono anche buone notizie dall’Asia. Si pensi a Taiwan, dove si è arrivati a legalizzare i matrimoni fra le persone dello stesso sesso. E ancora: nello Sri Lanka avvocati e attivisti hanno avuto successo nell’impedire la ripresa delle esecuzioni capitali; il governo del Pakistan ha assunto l’impegno di agire contro la crisi climatica e l’inquinamento; per la prima volta due donne sono state nominate giudici della Corte suprema delle Maldive.

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Proteste in Hong Kong – Foto: Studio Incendo (via Flickr)

Amnesty International: le rivolte in Medio Oriente e Nordafrica nel report 2019-2020

Dall’Algeria all’Iran, dall’Iraq al Libano le strade si sono riempite di persone che hanno chiesto diritti civili, dignità, giustizia sociale e fine della corruzione. Si può racchiudere con queste parole il 2019 per queste due aree geografiche sul fronte dei diritti umani. Ma non è mancato il sangue.

«In Iraq e Iran – si legge nel rapporto – in numerose occasioni le forze di sicurezza non hanno esitato ad aprire il fuoco contro i manifestanti sparando proiettili veri e provocando centinaia di morti: almeno 800 secondo gli ultimi dati raccolti da Amnesty International e migliaia di feriti. Le forze militari e di sicurezza israeliane hanno ucciso decine di palestinesi durante le manifestazioni che si sono svolte nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, perpetuando uno schema d’intervento ormai consolidato».

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amnesty international pena di morteAmnesty International dedica attenzione anche alla repressione del dissenso online. «In base ai dati che abbiamo raccolto – dicono dalla ong – in 12 paesi sono state arrestate 136 persone che avevano espresso pacificamente le loro opinioni online. Durante le proteste in Iran, internet è stato pressoché bloccato per evitare la condivisione di fotografie e video riguardanti uccisioni e ferimenti di manifestanti. In Egitto, così come in Palestina, le autorità hanno censurato siti e portali di notizie. In Iran le app di social media quali Facebook, Telegram, Twitter e YouTube sono rimaste bloccate».

Americhe: repressione del diritto d’asilo e delle proteste

Le Americhe sono rimaste la regione più pericolosa al mondo per difensori dei diritti umani e giornalisti. Nel 2019, 208 persone sono state uccise a causa del loro lavoro in difesa dei diritti umani.

In totale, nel contesto delle proteste, sono state uccise almeno 202 persone: 83 ad Haiti, 47 in Venezuela, 35 in Bolivia, 22 in Cile, otto in Ecuador e sei in Honduras. La Colombia è rimasto il paese più letale, con almeno 106 omicidi. Il Messico è stato uno dei paesi più mortali al mondo per i giornalisti, con 10 omicidi (leggi Messico: record di giornalisti uccisi e minacciati sotto la presidenza Nieto).

A preoccupare anche l’atteggiamento aggressivo contro migranti, richiedenti asilo e rifugiati. Almeno 70.000 nicaraguensi, messi in fuga dalla crisi dei diritti umani nel loro paese a partire dal 2018, si erano riversati nel vicino Costa Rica. Pur non avendo bloccato l’ingresso nel paese ai nicaraguensi, il Costa Rica non ha tuttavia fornito loro pieno accesso alle procedure d’asilo.

L’emergenza umanitaria senza precedenti del Venezuela ha costretto quasi 4,8 milioni di donne, uomini e bambini a fuggire dal paese. Alcuni governi, come quello del Perù, hanno imposto nuovi requisiti d’ingresso che hanno di fatto chiuso la porta ai venezuelani in cerca di protezione internazionale.

Più a nord, il governo Usa ha usato il sistema giudiziario contro i difensori dei diritti dei migranti, ha imprigionato illegalmente bambini migranti e ha attuato nuove misure per attaccare e limitare massicciamente l’accesso all’asilo, in violazione dei suoi obblighi internazionali.

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Migranti messicani a Tijuana, nel 2014 – Foto: Bbc World Service

«Proprio mentre le persone in fuga da una violenza persistente e diffusa cercavano di trovare protezione negli Usa – dicono da Amnesty International – l’amministrazione Trump le ha rimandate indietro. Decine di migliaia di persone sono state costrette ad attendere il proprio destino in Messico, sulla base delle politiche del “Rimani in Messico”».

L’Africa Subsahariana nel rapporto di Amnesty International sui diritti umani nel mondo

Nell’Africa Subsahariana i civili continuano a essere colpiti da conflitti mortali e violente crisi. Nella Repubblica Democratica del Congo decine di gruppi armati locali e stranieri, insieme alle forze di sicurezza, hanno continuato a violare i diritti umani provocando la morte di 2.000 civili e lo sfollamento forzato di almeno un milione di persone.

In Somalia, a metà novembre la Missione di assistenza della Nazioni Unite in Somalia ha registrato un totale di 1.154 vittime civili. Una situazione in cui il terrorismo ha una grossa fetta di responsabilità: il 67% è stato attribuito ad attacchi indiscriminati e deliberati compiuti prevalentemente dal gruppo armato al-Shabaab (leggi Terrorismo: l’ombra di al-Shabaab su Kenya e Somalia).

In Mozambico, gruppi armati hanno continuato a condurre attacchi contro la popolazione a Cabo Delgado e sono state diffuse informazioni secondo le quali le forze di sicurezza avrebbero commesso gravi violazioni dei diritti umani in risposta alla violenza. Alle elezioni di ottobre, in Mozambico, 18 osservatori elettorali sono stati arrestati e sottoposti a periodi prolungati di detenzione.

In Zimbabwe, almeno 22 tra difensori dei diritti umani, attivisti e rappresentanti della società civile e dell’opposizione sono stati incriminati per il loro presunto ruolo nell’organizzazione di proteste contro l’aumento dei prezzi del carburante nel gennaio 2019. Le forze di sicurezza dello Zimbabwe hanno aperto il fuoco, uccidendo almeno 15 persone, ferendone altre 78 ed effettuando più di mille arresti arbitrari.

In Guinea, dove le autorità hanno vietato oltre 20 dimostrazioni, le forze di sicurezza hanno continuato ad alimentare la violenza durante le manifestazioni e lo scorso anno sono rimaste uccise almeno 17 persone.

Europa: attacchi ai diritti e proteste di massa

In Europa sono state numerose e crescenti le proteste contro le politiche repressive dei Governi, tanto da «rappresentare un raggio un speranza per il futuro». In paesi come la Polonia, l’Ungheria, la Romania e la Turchia, l’indipendenza del sistema giudiziario è stata minacciata con azioni volte a controllare giudici e tribunali; numerose le restrizioni alle dimostrazioni in Francia, Polonia e Turchia; e non è mancata la rappresaglia nei confronti di coloro che hanno preso parte alle proteste di massa a Mosca.

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Foto: Óglaigh na hÉireann (via Flickr)

In fuga da guerra e tortura

Un capitolo particolarmente critico, in Europa, è quello che riguarda le migrazioni. Secondo le stime, i richiedenti asilo e migranti arrivati irregolarmente in Europa nel 2019 sarebbero circa 120.000.

Le violazioni dei diritti umani ai danni di richiedenti asilo e migranti che cercavano di attraversare il Mediterraneo centrale hanno raggiunto livelli da record a partire da aprile, con la ripresa delle ostilità in Libia. «Oltre che tortura e detenzione arbitraria, queste persone hanno anche dovuto affrontare bombardamenti e attacchi deliberati da parte delle fazioni belligeranti, che hanno provocato la morte di decine di migranti e richiedenti asilo».

Amnesty International contro il rinnovo dell’accordo Italia-Libia

Secondo le stime, a poco più di un anno dall’entrata in vigore del decreto legge 113/2018, che ha abolito lo status di protezione umanitaria, ad almeno 24.000 persone è stato negato uno status legale, limitando il loro accesso all’assistenza medica, all’alloggio, ai servizi sociali, all’istruzione e al lavoro.

A febbraio, il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti dell’infanzia ha espresso preoccupazione per la protezione offerta ai minori rifugiati e migranti e, ad aprile, il Comitato sulle sparizioni forzate ha evidenziato una serie di timori sulle condizioni di vita nei centri di detenzione per migranti.

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Amnesty International
Foto diffusa via Twitter dal fondatore dell’ong Moas, Chris Catrambone

Nonostante il deterioramento della situazione di sicurezza e il continuo emergere di prove delle sistematiche violazioni dei diritti umani nei centri di detenzione libici, i paesi europei hanno continuato a cooperare con la Libia per trattenere i migranti e i richiedenti asilo nel paese. A novembre, il governo italiano ha prolungato con la Libia, di altri tre anni, il suo accordo relativo ai migranti.

La cooperazione con la Libia andava di pari passo con la cosiddetta politica dei “porti chiusi” stabilita dal governo italiano. In base a questa linea, è stato negato l’ingresso in un porto sicuro alle navi delle ong che avevano soccorso persone in mare, costringendole ad attendere al largo per settimane, mentre gli stati mediterranei litigavano tra di loro per decidere dove farle sbarcare. Questa politica è terminata dopo il cambio di governo in Italia, che ha creato le condizioni per un accordo temporaneo tra Francia, Germania, Italia e Malta. L’accordo, considerato un piccolo e provvisorio passo in avanti, ha assicurato almeno un minimo di coordinamento tra i quattro paesi per fare sbarcare e ricollocare le persone soccorse in mare.

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