Mutilazioni genitali femminili: guida al linguaggio per parlare di Mgf
L'Organizzazione mondiale della sanità usa il termine "mutilazioni genitali femminili", l'Africa francofona "escissione", mentre quella anglofona "circoncisione femminile". E per le attiviste africane è un "taglio genitale femminile". I significati cambiano e in questa battaglia culturale bisogna tenerne conto
di Federica Giannuzzi
La lingua ha come prima funzione quella della veicolazione di significati, cioè la comunicazione a chi legge di informazioni di un messaggio. Un altro dato importante da tener presente è senz’altro la “funzione poetica della lingua” (R. Jakobson), e cioè lo stile, la forma con cui il messaggio è espresso.
In Autorità ed uso della lingua, un saggio di David Foster Wallace, l’autore ha sottolineato come la lingua, per essere efficace, debba raggiungere «un delicato equilibrio retorico» tra queste funzioni. Fuori da questo equilibrio, lo stile diventa «pretenzioso», produce «opache astrazioni» che rendono meno nitido il messaggio e la sua comprensione.
Raggiungere questo equilibrio è particolarmente importante quando si tratta di mutilazioni genitali femminili, un tema che riguarda sensibilmente l’integrità, la salute e l’autonomia del corpo femminile. La forma di alcune “etichette” di largo uso, talvolta citate incautamente per ragioni di traduzione da un’altra lingua, potrebbe portare ad incidere sulla chiarezza di ciò che si comunica al destinatario.
Nello specifico, i riferimenti ai linguaggi settoriali – quelli delle Carte internazionali, degli organismi che li producono o alla letteratura di settore – sono certamente utili e necessari, a patto che li si valuti nel significato originario e per il fine per cui sono stati prodotti.
Ciò detto, esistono molteplici termini per riferirsi collettivamente alle diverse pratiche che alterano l’anatomia naturale dell’organo sessuale femminile in bambine, adolescenti e giovani donne.
L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) usa “mutilazioni”, nella letteratura dell’Africa francofona si trova l’espressione “escissione” e in quella anglofona “circoncisione femminile”. Negli anni Novanta le attiviste africane hanno iniziato a rivendicare l’uso dell’espressione “taglio genitale femminile”. Perché? Quali sono le differenze e come orientarsi consapevolmente.
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Mutilazioni genitali femminili: cosa sono nel vocabolario dell’Oms
L’Organizzazione mondiale della sanità si riferisce collettivamente alle pratiche in questione con l’etichetta “mutilazioni genitali femminili”, spesso utilizzando l’acronimo Mgf (in inglese Fgm). La terminologia è utilizzata da molti documenti ufficiali delle Nazioni Unite, da diverse organizzazioni intergovernative che si occupano di diritti dell’infanzia (Unicef) e diritti femminili e da molte organizzazioni non governative (ong).
Il termine ha il pregio di indicare chiaramente quale sia l’effetto dannoso di queste pratiche: la mutilazione dei genitali femminili. In base alla sua ideazione, si offre molto bene per i fini della promozione di politiche pubbliche internazionali in tema di salute e, in generale, della sensibilizzazione.
Nel 1997 l’Oms ha attuato una distinzione in categorie tra vari tipi di mutilazioni, successivamente aggiornate in sottocategorie per ragioni di maggiore precisione. Le categorie sono:
Tipo I: rimozione parziale o totale del glande del clitoride e/o il prepuzio con o senza rimozione del cappuccio clitorideo;
Tipo II: rimozione totale o parziale del clitoride e delle piccole labbra con o senza asportazione delle grandi labbra;
Tipo III: restringimento dell’orifizio vaginale, creando un “sigillo di copertura” che permette alla donna l’espletamento delle funzioni corporali e il deflusso del sangue mestruale. Comunemente detta “infibulazione”;
Tipo IV: categoria aperta, in cui rientrano tutte le procedure lesive dei genitali femminili praticate a scopi non medici come perforamento, incisione, raschiatura e cauterizzazione (trad. ActionAid Italia).
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Le controindicazioni del termine “mutilazioni”
In linea di principio, non c’è alcun problema con l’uso del termine “mutilazioni”. Se solo si volesse impiegare il termine per lo scopo per cui è stato creato: la promozione delle politiche pubbliche in materia di salute e l’advocacy in generale. Se però la terminologia viene spostata dal suo ambito naturale e viene trasposta nel contesto ambientale e culturale delle “mutilate”, allora ecco che potrebbe costituire un elemento di frizione, suonando paternalistica.
Qualora si tenga in debita considerazione che l’atto violento, di cui queste pratiche si sostanziano, viene attuato in un contesto di esorbitante pressione sociale, si comprenderà che essere o non essere circoncisa potrebbe semplicemente non essere tra le opzioni di una donna (Rahman, Toubia).
Dunque, la donna subisce un trauma non solo fisico, ma anche psichico, e cioè un evento improvviso e violento in grado di alterare l’equilibrio mentale e di disorientare (Devoto-Oli).
L’elaborazione personale di questo trauma (dall’inglese Giving meaning to suffering), secondo le specificità culturali e traumatiche del caso, potrà trasformarsi in uno dei cosiddetti “effetti positivi del trauma” (V. Frankl), in una risorsa per il soggetto traumatizzato, solo se sarà libera e graduale. In questo senso, la prematura o forzata identificazione come “mutilata” proveniente da stimoli esterni potrebbe interferire con questo processo.
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Circoncisione femminile e maschile: un’analogia errata
Il termine “circoncisione femminile” deriva dalla letteratura dell’Africa di lingua inglese ma ha avuto un diffuso appeal anche in Occidente, sia nelle trattazioni tecniche sia divulgative. La qualificazione “femminile” si oppone chiaramente a “maschile”, creando una sorta di analogia.
Erroneamente, la circoncisione maschile – il taglio del prepuzio del pene, senza danneggiamento dell’organo sessuale – è stata paragonata alle procedure di resezione dei genitali femminili, che costituirebbero pratiche ben più estese (Rahman e Toubia).
Le studiose A. Rahman e N. Toubia, nel libro “Mutilazione genitale femminile” spiegano quanto la comparazione veicoli una informazione errata, chiarendo quali sarebbero le conseguenze pratiche dell’accettazione della sottintesa analogia.
L’equivalente maschile della clitoridectomia (in cui viene rimosso in tutto o in parte il clitoride) sarebbe l’amputazione della maggior parte del pene.
Mentre l’equivalente maschile dell’infibulazione, che coinvolge non solo la clitoridectomia ma la rimozione o la chiusura del tessuto sensibile attorno alla vagina, sarebbe la rimozione di tutto il pene, delle sue radici, dei tessuti molli e di parte della pelle scrotale.
Inoltre, precisano le studiose, «il messaggio sessuale diffuso da ciascuna pratica» sarebbe di segno opposto. Mentre la circoncisione maschile affermerebbe la mascolinità, la virilità e la loro superiorità sociale, la cosiddetta “circoncisione femminile” sarebbe esplicitamente rivolta a mostrare il limitato ruolo sociale della donna e la restrizione dei suoi desideri sessuali.
Dunque, poiché il termine “circoncisione” è astruso rispetto alla realtà delle pratiche di taglio genitale femminile, il rischio nell’utilizzarlo sarebbe quello di veicolare un significato sbagliato.
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Circoncisione “della sunna”: le motivazioni non stanno nell’Islam
Molto spesso si incappa in riferimenti a vario titolo alla cosiddetta “circoncisione della sunna”. Senza ripetere le ricadute del termine circoncisione, il riferimento alla Sunna, e dunque a una delle fonti autentiche della legge islamica (Shari’a), è senza fondamento.
Infatti, né il Corano né la collezione degli insegnamenti del Profeta (ʾaḥādīth) contengono riferimenti diretti al taglio dei genitali femminili (Rahman e Toubia).
In Africa le pratiche semplicemente preesistono all’avvento dell’Islam o del cristianesimo e sono messe in atto da ebrei, cristiani, musulmani e gruppi religiosi indigeni. E ciò, nonostante la volontà di alcune nazioni africane o di molti membri della comunità islamica di difenderne l’intrinseca “islamicità”.
Circa gli altri Paesi a maggioranza musulmana che le identificano come “Islam”, bisognerebbe ricordare la relazione finale (1998) della Conferenza internazionale sulla popolazione e la salute riproduttiva nel mondo musulmano. In questa occasione, l’Università di Al-Azhar (Il Cairo), uno dei più antichi centri accademici degli studi islamici, ha confermato che queste pratiche dannose sul corpo delle donne sono il risultato di «un fraintendimento delle previsioni islamiche».
Per questo motivo, ogni riferimento alla sunna del corano in tema di taglio genitale femminile rischierebbe di veicolare un’informazione che su questo tipo di fraintendimento si basa.
Mutilazioni genitali femminili e l’importanza delle parole
Come si è visto, il vasto mondo delle pratiche che modificano l’anatomia dell’organo sessuale femminile possono essere variamente etichettate. Cionondimeno, il contenuto enunciativo della lingua è solo una parte del messaggio da comunicare, l’altra parte attiene alle scelte del comunicatore.
Avere cura di considerare che talvolta le definizioni sono costrutti sociali che assumono diversi significati a seconda del contesto in cui ci si trova e della percezione del destinatario, potrebbe fare un’enorme differenza. Soprattutto quando si parli o si agisca nella sfera della “sessualità femminile” e controllo su questa.
Bisognerebbe sempre tenere a mente che non esiste una sola ragione giustificatrice per queste pratiche dannose. Ne esistono molte, interconnesse, ognuna delle quali è radicata in un peculiare sistema di credenze e di valori che le supportano e con cui i diritti femminili si trovano ad essere in collisione.
In questa prospettiva, trovare le parole da usare per veicolare messaggi chiari ed inequivocabili non è sicuramente un’operazione semplice. Ancor di più non lo è la scelta di un linguaggio “consapevole” del forte impatto sociale ad esso sotteso.