Braccianti agricoli: regolarizzazione primo passo contro la criminalità

Dopo settimane di discussioni e contrasti all'interno del governo, la maggioranza ha deciso di inserire nel decreto Rilancio la possibilità di regolarizzazione per sei mesi per i migranti irregolari. Si tratta di un permesso temporaneo di lavoro che prevede un doppio canale di emersione. Un primo passo per contrastare il caporalato nei campi

«Per la mia storia è un punto fondamentale e mi riferisco all’articolo 110 bis. Da oggi gli invisibili saranno meno invisibili. Da oggi vince lo Stato perché è più forte della criminalità e del caporalato». A dire queste parole è la ministra all’Agricoltura, Teresa Bellanova, ex sindacalista, un passato da bracciante.

Si riferiscono alle centinaia di migliaia di braccianti irregolari che vivono in Italia e che lavorano nel nostro paese senza alcun tipo di contratto e di tutela. Le ha pronunciate ieri sera, il 13 maggio, in conferenza stampa a Palazzo Chigi per la presentazione del decreto Rilancio che, tra le diverse misure messe in campo dal Governo a sostegno dell’economia, prevede per i migranti irregolari – in particolare braccianti, colf e badanti – la possibilità di richiedere un permesso temporaneo di lavoro della durata di sei mesi e un doppio canale di emersione: o attraverso l’autodenuncia del datore di lavoro oppure grazie a un permesso per ricerca di lavoro (ne parla l’articolo 110-bis del decreto Rilancio sull’emersione dei rapporti di lavoro).

Dopo giorni di tira e molla con il Movimento 5 Stelle, la maggioranza giallo-rossa ha trovato dunque un accordo sulla regolarizzazione dei migranti «soddisfacente» anche per Vito Crimi, il pentastellato che più di tutti si era opposto all’idea di una regolarizzazione. Il compromesso tra Pd, Italia viva e 5 Stelle è stato raggiunto cancellando qualsiasi sconto o scudo per i datori di lavoro che si autodenunciano per fare emergere il lavoratore in nero.

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Foto: Pixabay

Braccianti agricoli immigrati: regolarizzazione ed emergenza coronavirus

L’emergenza sanitaria legata al coronavirus aveva reso chiaro a molti che in agricoltura la maggior parte dei lavoratori sono migranti. E che, senza di loro, la filiera agricola del “Made in Italy” rischia il collasso. Così, a seguito dello scoppio della pandemia, è esploso il tema della regolarizzazione dei braccianti.

Nelle ultime settimane la questione ha monopolizzato il dibattito pubblico. A lanciare l’allarme sono state le associazioni di categoria, come Coldiretti e Confagricoltura, che da due mesi denunciano il rischio di un blocco della produzione per mancanza di manodopera, circa 300.000 stagionali, tra comunitari ed extracomunitari.

A inquadrare il problema in una cornice di giustizia sociale però sono stati i sindacati, con in testa la Flai Cgil, che hanno rivendicato la necessità di metterli in regola per poterne garantire il diritto alla salute e a un lavoro dignitoso. In ultimo, in merito, si è espressa anche la politica. E su spinta di nuovo dei sindacati e di diverse ong si è iniziato a parlare di “regolarizzazione dei migranti”, includendo così nel discorso anche le persone che lavorano nel settore della cura.

Sanatoria, chi ha iniziato a parlarne?

Secondo alcune stime, in Italia gli immigrati irregolari sono circa 562.00 (dati Ismu). La prima proposta di una regolarizzazione da inserire nel cosiddetto decreto Rilancio era stata avanzata il 4 maggio da Teresa Bellanova e riguardava solo i braccianti: «Sulla regolarizzazione c’è un problema di lavoro e c’è un problema sanitario perché queste persone stanno nei ghetti. Ce ne facciamo carico?», aveva tuonato l’ex sindacalista ai microfoni di Radio Anch’io, minacciando le dimissioni.

Decreto Rilancio: chi sono i contrari alla regolarizzazione dei migranti

L’istanza di Bellanova ha portato la maggioranza di Governo a spaccarsi in due. Da un lato Italia Viva e il Partito Democratico a favore della regolarizzazione. Dall’altro il M5S, con in testa Vito Crimi, che il 7 maggio dichiarava: «Se il nostro obiettivo è sostenere l’agricoltura, allora dobbiamo lavorare a misure per garantire il mercato, ma la soluzione non è la regolarizzazione, come se in agricoltura lavorassero solo migranti irregolari, un assunto sbagliato».

L’assunto è sbagliato, infatti, perché, è vero, in agricoltura in Italia non ci lavorano solo i migranti, ma anche molti italiani. Il problema però è che il 90% dei lavoratori agricoli, poco più di un milione, è pagata a ore e non guadagna più di 10,96 euro l’ora (dati Fondazione Metes). Questo quando vengono assunti regolarmente, ma spesso questo non accade.

Agricoltura, lavoro irregolare per oltre 400 mila persone

Secondo il quarto rapporto Agromafie e caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto «sono tra i 400.000 e i 430.000 i lavoratori e le lavoratrici dell’agricoltura che hanno un ingaggio irregolare e lavorano sotto caporale. Di questi, più 132.000 sono in condizione di grave vulnerabilità sociale e forte sofferenza occupazionale. Il tasso di irregolarità dei rapporti di lavoro in agricoltura è pari al 39%». E questo non riguarda solo gli stranieri, ma anche gli italiani.

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Storia di Martina, bracciante agricola a 5 euro l’ora

Martina Camporelli ha 29 anni. Torinese, è laureata in legge, ma già ai tempi dell’università i suoi interessi hanno virato verso il mondo del cibo e dell’agricoltura. Da qualche anno si è trasferita fuori città, in una dimensione più agreste. Per mantersi ha svolto vari lavori, non strettamente legati al mondo forense, anzi, ma sempre a patto di «non venire sfruttata».

Dopo alcuni tentativi di ricerca nel settore agricolo, durante l’emergenza coronavirus ha deciso di mandare un curriculum ad un’azienda locale, familiare, «che – si legge sulle loro pagine – da vent’anni porta avanti un’agricoltura di qualità». Lo ha fatto inviando una mail di poche righe, che si concludeva con una delle sue citazioni preferite: «Control oil and you control nations; control food and you control the people» (Chi controlla il petrolio, controlla le nazioni. Chi controlla il cibo, controlla le persone).

L’azienda ha contattato Martina ed è così che è finita a raccogliere fragole e fagiolini in serra, per cinque euro l’ora, in nero, per mezza giornata. Nessun imbarazzo da parte del datore di lavoro ad “assumerla” in maniera irregolare, nessuna chiarezza rispetto a un possibile inquadramento. La massima prospettiva è stata «tra due settimane si vedrà». Martina non ci è stata e se n’è andata.

«Ho fatto la bracciante solo per cinque giorni. Poi io ho deciso di oppormi a questo sistema e di dire di no. Purtroppo, c’è chi non può permettersi di dire di no. E chi invece forse lo può fare, ma non lo fa perché crede di non poterlo fare, e perché tanto fanno tutti così».

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Regolarizzazione per tutelare i diritti

Chi non può permettersi di dire no è chi vive nei ghetti della Capitanata o del Pontino, per esempio. «Nel 2020 ci sono ancora migliaia di persone – migranti sia irregolari che regolari – che sono rinchiuse in situazioni informali fatte da case di lamiera o cartone, senza nessun tipo di servizio e che vivono in queste condizioni da anni. Da anni i ghetti sono i luoghi di reclutamento di manodopera bracciantile nei campi», spiegava Fabio Ciconte, direttore dell’associazione ambientalista Terra! e portavoce della campagna FilieraSporca in un’intervista del 23 aprile sulla pagina Facebook di Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili.

«Il virus non fa distinzione di ceto e di classe, quello che fa la differenza sono invece le disuguaglianze sociali delle persone potenzialmente colpite o contagiate».

Il rischio che il Covid-19 arrivasse in quegli aggregati dove è impossibile rispettare anche la minima norma igenico-sanitaria era il primo vero motivo per cui si chiedeva la regolarizzazione dei braccianti. Il motivo della richiesta era dettato da un principio innanzi tutto umanitario. Non perché ci fosse carenza di manodopera.

Una proposta per tutelare i braccianti agricoli dei ghetti

Per questo il 20 marzo, in piena emergenza coronavirus, la Flai Cgil insieme a Terra!, che da anni studia e monitora il fenomeno del caporalato, avevano lanciato una prima proposta di regolarizzazione dei migranti. Si riferiva proprio alle migliaia di braccianti agricoli che vivono nei ghetti.

Nei giorni successivi aveva raccolto l’adesione di tanti: dall’elemosiniere del Papa a Luigi Manconi, da Intersos alla Caritas. La lettera-appello era rivolta al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e ai ministri dell’Agricoltura, del Lavoro, dell’Interno, della Salute, per il Sud e la Coesione Territoriale.

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Marco Omizzolo, sociologo e ricercatore per Eurispes. Foto: Marco Omizzolo

Regolarizzazione: «È un primo passo ma non basta»

Oggi, a distanza di più di 40 giorni dal lancio del primo appello si può dire che la regolarizzazione è sicuramente un primo passo necessario perché, come denuncia Amnesty International, «senza la documentazione richiesta i migranti in condizione di irregolarità hanno difficoltà ad accedere a servizi essenziali come l’assistenza sanitaria». Ma da sola non basta. A dirlo è Marco Omizzolo, tra i maggiori esperti in Italia di lavoro in agricoltura e autore di “Sotto Padrone, uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana”.

Il sociologo e ricercatore per Eurispes lo aveva spiegato bene in un’intervista rilasciata a metà aprile all’agenzia di stampa Redattore sociale: «Non è una misura sufficiente se rimangono in vigore le procedure che rendono più fragile la posizione di alcune persone, come per esempio il primo decreto sicurezza. La legge 132 del 2018, come ricorda sempre Amnesty International, ha distrutto la buona accoglienza, ha creato dei grandi hub dove si concentrano i richiedenti asilo, mentre altri sono finiti in strada diventando facile preda per le mafie e manodopera a basso costo per caporali e speculatori. A Castel Volturno Nash, ghanese di 67 anni, si è ammalato di coronavirus ed è morto. Si tratta di uno dei tanti casi di persone lasciate in mezzo alla strada per decreto, prima era accolto in uno Sprar. Se non fermiamo questo meccanismo di esclusione non si arrestano i problemi. Va cancellato anche il reato di clandestinità».

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