Coronavirus Perù: fuga nei campi per non morire di fame
Il sistema sanitario in Perù è schiacciato dalla diffusione del nuovo coronavius. Il lockdown mette a rischio la vita di chi non ha un lavoro regolare. Chi ha una terra torna a coltivare. Ma le miniere di rame e argento non si fermano
Il 17 aprile il presidente del Perù Martin Vizcarra ha deciso di riaprire le strade della capitale Lima per concedere ai lavoratori delle provincie di tornare a casa. A seguito del lockdown imposto a metà marzo per scongiurare l’epidemia del nuovo coronavirus, infatti, migliaia di persone erano rimaste bloccate nella capitale per motivi di lavoro.
Per protesta, oltre mille lavoratori residenti nelle zone rurali verso il Cile si erano stabiliti lungo la linea di confine cittadina, blindata dall’esercito. E alla fine, dopo diversi scontri, il sindaco della città, Jorge Muñoz Wells, di concerto con il presidente, ha deciso di organizzare autobus per il rientro verso i villaggi di origine.
Le persone volevano tornare a casa per non morire di fame, non ricevendo più uno stipendio. I piccoli terreni rimasti incolti a causa del loro trasferimento in città ora sono visti come l’unica possibilità di alimentazione.
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Coronavirus in Perù: in pericolo chi lavora in nero
Per il 72% della popolazione del Perù il lavoro è informale, senza contratto e quindi stipendio fisso. Il coprifuoco dalle 18 alle 5 e il divieto assoluto di uscire hanno sancito la fine per lavori come il venditore ambulante, la domestica e il muratore che si sono fermati da un giorno per l’altro senza preavviso.
L’assenza di lavoro retribuito alla giornata ha causato mancanza di cibo, soldi e beni di prima necessità in generale. Una crisi sociale emersa dopo poche settimane che il governo, attraverso il ministero della Difesa, aveva iniziato a distribuire derrate alimentari per le strade con il programma Ayudanos a ayudar.
Rischio povertà per milioni di persone: le conseguenze del lockdown
La chiusura dei negozi, e soprattutto dei mercati locali, ha impoverito famiglie che mediamente vivono con 14 euro al giorno. Famiglie spesso dedite alla vendita ambulante, con una media di 3 figli a carico e senza nessun risparmio da parte.
«Normalmente le persone guadagnano intorno ai 7 euro al giorno, con lavori manuali o di vendita al dettaglio. Sono quindi famiglie non indigenti e aiutate dalla Stato, ma che senza lavoro cadono in poche settimane sotto la soglia minima di povertà», denuncia Mauro Morbello, responsabile di progetti sociali per Terre des Hommes Italia nella periferia di Lima e nelle zone rurali.
Sono circa 11 milioni le persone a rischio che necessitano ora di aiuto economico per comprare da mangiare. Il governo, inoltre, ha deciso di stanziare 380 soles a persona (circa 100 euro) per combattere la crisi alimentare, consegnati direttamente alle famiglie dalla Caritas. I soldi però faticano ad arrivare a destinazione.
«La rete governativa di distribuzione esiste, ma è molto affaticata dalle chiusure delle strade e dalla mancanza di personale. Distribuire soldi o beni di prima necessità comporta un grande sforzo, che nemmeno l’esercito, venuto in aiuto, sta riuscendo a fare», nota l’operatore della ong.
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Nei campi o in miniera per sopravvivere alla crisi
I mille lavoratori della capitale che hanno tentato di forzare il blocco militare e tornare nelle proprie abitazioni lo hanno dovuto fare per trovare cibo nei propri campi. Si torna alla terra da coltivare per sopravvivere, sapendo che i prossimi mesi saranno duri.
Senza lavoro «le famiglie nelle zone rurali vivono del proprio orto, tutti sanno che non moriranno di fame potendo coltivare qualcosa. Ma ciò non basta, si devono aiutare anche in questo», sottolinea Morbello, che da metà aprile visita le 400 famiglie aiutate dal sostegno di Terre des Hommes per portare sacchi di cibo. I mercati locali, in alcuni casi, rimangono aperti per poter vendere e barattare qualcosa, sapendo che la mancata distanza e l’assenza di mascherine comporta un alto rischio di contagio.
Un altro lavoro ancora attivo e a rischio è quello del minatore. Il Perù è il primo esportatore mondiale di rame e il secondo per l’argento e le principali multinazionali esportatrici sono americane e cinesi. L’1% della popolazione è impiegata nell’estrazione delle materie prime e per ora il lavoro continua, malgrado il crollo del prezzo sia del rame sia dell’argento.
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Perù e coronavirus: sanità al collasso
Attualmente in Perù si contano oltre 21.600 casi confermati di coronavirus e 634 morti (fonte: Organizzazione mondiale della sanità, 26 aprile 2020). Prima che scattasse l’emergenza Covid-19 nel paese erano presenti 250 respiratori e la spesa annua per la sanità pubblica era di 670 dollari a persona (la stessa situazione per la Lombardia era 720 respiratori e 3.000 euro all’anno per persona). Numeri troppo bassi per rispondere all’emergenza sanitaria, motivo per cui il paese è stato chiuso prima di riscontrare alti numeri di contagiati e deceduti.
Racconta Mauro Morbello: «Nella capitale le poche terapie intensive sono già al collasso per questa epidemia e i presidi sanitari rurali non sono in grado di aiutare la popolazione. Ci sono solo delle infermiere che in alcuni villaggi visitano per le varie malattie endemiche».
Infatti la sanità pubblica è già impegnata dalle grandi malattie, come tubercolosi, zika e dengue, che ogni anno richiedono una spesa del 3,8% del Pil nazionale, circa 1.000 dollari a persona che devono coprire vaccini, terapie ed emergenze (la media nazionale a persona in Italia è di 3.000 euro l’anno).
«Le distanze da percorre per raggiungere i presidi medici rurali sono enormi, le persone devono uscire di casa per trovare da mangiare e la distribuzione di mascherine da parte dell’esercito non ha riguardato tutte le zone del paese. Ho visitato l’ospedale di Cuzco (nel sud del paese, ndr) e ho trovato una situazione disarmante: pieno di malati, con medici e infermieri allo stremo e senza protezioni», racconta Morbello.