Coronavirus: libertà di stampa sotto attacco dalle Filippine all’Ungheria

Reporters Sans Frontières ha avviato Tracker_19, una mappa per monitorare gli effetti della pandemia sulla stampa e tenere sotto controllo abusi e violazioni. Molti governi hanno legalizzato condanne arbitrarie. E le minacce ai giornalisti sono sempre più insistenti

Nella crisi globale causata dall’epidemia di coronavirus, anche la libertà di stampa è sotto attacco. Tanti Paesi stanno sfruttando il momento per imporre misure restrittive e controllare le informazioni e gli organi di stampa. Le motivazioni sono tante: un goffo tentativo di coprire le colpe dello Stato, la speranza di migliorare la propria immagine pubblica, oppure, semplicemente, la strategia della censura volta a nascondere il problema.

Coronavirus e libertà di stampa: l’iniziativa di Reporters Sans Frontières

Per tenere sotto controllo la situazione e denunciare il bavaglio imposto ai giornalisti, il network internazionale di Reporters Sans Frontières ha attivato il progetto #Tracker_19. Una mappa che vuole «monitorare l’impatto della pandemia sulla stampa». Il numero “19” infatti, oltre che essere un riferimento alla malattia causata dal coronavirus, il Covid-19, è anche un richiamo all’Articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che mira proprio a proteggere la «libertà di opinione ed espressione».

Una mappa, dunque, che tiene traccia degli abusi imposti dai governi sulla libertà di stampa, tanto a livello locale quanto nazionale. La situazione è complicata e, a volte, individuare e denunciare le forme di censura può avere conseguenze allarmanti.

Filippine: giornalisti in carcere per notizie «false»

Nelle Filippine il presidente Rodrigo Duterte —  già noto per i tentativi di silenziare i sostenitori dei diritti umani (leggi Filippine: Duterte contro Onu e difensori del diritto alla terra) — ha approvato a fine marzo il Bayanihan to Heal As One Act, un provvedimento che conferisce al capo dello Stato poteri speciali per un periodo iniziale di tre mesi, rinnovabile secondo necessità.

Tra le altre cose, la diffusione di informazioni considerate «false» riguardo all’emergenza sanitaria o alla sua gestione è diventata punibile con il carcere. Ora, il web editor Mario Batuigas e il video blogger Amor Virata rischiano due mesi di prigione e una multa di 17.500 euro per aver diffuso notizie definite fake riguardo ai casi di contagio a Cavite City, a sud della capitale Manila.

Sempre nelle Filippine Joshua Molo, editor per il giornale della Manila’s University of the East che aveva criticato la gestione dell’emergenza da parte dell’amministrazione Duterte, ha ricevuto minacce di denuncia per diffamazione da parte di insegnanti e forze dell’ordine. Impossibilitato a sostenere i costi di una causa legale, Molo è stato obbligato a scusarsi per i suoi articoli con un video su Facebook.

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Il presidente filippino Rodrigo Duterte – Foto: Pexels

In Thailandia chi informa rischia 5 anni di galera

Misure simili sono state adottate anche dalla Thailandia, dove il 26 marzo scorso il governo di Prayut Chan-ocha ha dichiarato punibile con fino a 5 anni di carcere la diffusione di informazioni «false» o «capaci di causare panico e allarmismo» riguardo all’emergenza sanitaria in corso. Il decreto, però, non fornisce alcuna definizione di «notizia falsa», lasciando quindi un ampio margine discrezionale alle autorità competenti.

Pochi giorni prima della dichiarazione dello stato d’emergenza, il 23 marzo, l’artista Danai Ussama è stato arrestato nella sua galleria di Phuket dopo aver denunciato su Facebook come, al suo rientro da un viaggio in Spagna, nessun passeggero fosse stato controllato in sede aeroportuale.

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In Iraq stampa internazionale al bando

In Iraq, la Commissione per Comunicazione e i Media ha ritirato all’agenzia di stampa internazionale Reuters la licenza per operare nel Paese, come ritorsione in seguito alla pubblicazione di un articolo in cui si accusava l’amministrazione di sottostimare il numero delle vittime da coronavirus.

Reuters è anche stata multata per 20 mila euro. L’agenzia afferma di non aver ancora ricevuto alcuna comunicazione ufficiale riguardo al ritiro della licenza e ha comunque sostenuto la veridicità di quanto affermato nell’articolo.

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Iran, censura sul Covid-19

Nel vicino Iran, uno dei Paesi più duramente colpiti dal coronavirus nelle prime fasi dell’epidemia (leggi Iran: il coronavirus uccide ogni 10 minuti, ma i conti non tornano), il governo di Rouhani ha cercato di nascondere i dati ufficiali, sostenendo che la situazione fosse «sotto controllo».

Un quadro totalmente diverso, però, emerge dai racconti di giornalisti e reporter indipendenti, che hanno da subito criticato i tentativi di censura e la diffusione di fake news da parte del governo. Il 26 febbraio scorso già 30 persone erano state arrestate con l’accusa di diffondere informazioni false riguardo alla gestione dell’emergenza coronavirus da parte di Teheran.

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Foto: Unsplash

Coronavirus e libertà di stampa: negazionismo in Turkmenistan e Bielorussia

Un approccio di vero e proprio negazionismo è stato adottato dai governi autoritari di Turkmenistan e Bielorussia. Nel primo caso, il presidente Berdymukhammedov ha fondamentalmente vietato l’uso della stessa parola coronavirus: istituzioni e organi di stampa cercano di utilizzarla il meno possibile e questa non compare nemmeno nei documenti informativi ufficiali diffusi in scuole e ospedali. Rsf afferma che, in Turkmenistan, i cittadini che indossano mascherine in pubblico o discutono del nuovo virus sono passibili di arresto.

In Bielorussia invece, il premier Lukashenko si è opposto all’imposizione di qualsiasi tipo di misura restrittiva, affermando che la «psicosi» è più pericolosa del virus stesso. Il 25 marzo, il giornalista Sergei Satsuk, reporter per Yezhednevnik, è stato arrestato dopo aver pubblicato un editoriale critico nei confronti della gestione della pandemia da parte di Lukashenko. Ufficialmente, Satsuk è accusato di corruzione e rischia fino a 10 anni di carcere.

Brasile: Bolsonaro attacca i giornalisti

L’approccio negazionista è stato adottato anche dal presidente del Brasile Jair Bolsonaro (leggi Coronavirus in Brasile: aumentano i casi, ma Bolsonaro continua a negare), che ha definito il coronavirus come «poco più che un’influenza» e ha più volte accusato i media di diffondere inutile «isteria» riguardo alla pandemia in corso.

Durante un messaggio alla nazione, Bolsonaro ha detto che gli organi di stampa brasiliani «diffondono la paura sfruttando l’alto numero di vittime in Italia, un Paese con una grande fetta di popolazione anziana e un clima totalmente diverso dal nostro».

Il ministro della Salute Luiz Henrique Mandetta, prima di iniziare a criticare le politiche adottate da Bolsonaro, aveva a sua volta definito la copertura mediatica del Covid-19 offerta dalla stampa nazionale come «tossica» e «sordida». Si è poi scusato pochi giorni dopo.

Facebook, Instagram e Twitter hanno rimosso video postati dall’account di Bolsonaro in cui il presidente passeggiava tranquillamente per le strade di Brasilia, in completa contraddizione con le misure di distanziamento sociale consigliate dall’Oms.

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Jair Bolsonaro – Foto: Jeso Carneiro (via Flickr)

Russia tra silenzi e distorsioni ai tempi del coronavirus

In Russia, un Paese da 145 milioni di abitanti, il controllo dell’informazione può essere un fattore fondamentale nel mezzo di una crisi globale. Il presidente Vladimir Putin sta quindi cercando di silenziare la stampa domestica e di manipolare quella estera.

L’agenzia di stampa Reuters ha denunciato come, già a metà marzo, la Russia stesse consapevolmente contribuendo a diffondere informazioni false sull’epidemia in cinque lingue diverse, con lo scopo di creare allarmismo e sconvolgere gli equilibri europei. All’interno dei propri confini, il governo attacca i giornali regionali e locali, costringendoli a censurare articoli e dati.

Cina: nessuna libertà di stampa (anche) sul coronavirus

Guardando alla Cina, paese d’origine del virus e primo focolaio dell’epidemia, Xi-Jinping ha confermato la linea di censura e controllo adottata dal suo governo. Uno studio dell’Università di Southampton afferma che, se la Cina avesse agito con due settimane di anticipo, avrebbe potuto evitare l’86% dei decessi causati dal coronavirus.

Secondo Reporters Sans Frontières, una stampa libera avrebbe permesso alla popolazione di capire immediatamente il reale pericolo posto dal Covid-19, e al governo di agire di conseguenza. Inizialmente, infatti, i primi gridi d’allarme sono stati largamente ignorati.

Ne è simbolo Li Wenliang, oftamologo al Wuhan Central Hospital, che aveva allertato riguardo ai pericoli della nuova polmonite già a dicembre, senza ricevere ascolto. È morto pochi mesi dopo, a 33 anni, affetto da Covid-19.

Il 27 marzo, nel pieno della pandemia, la Cina ha espulso 13 giornalisti statunitensi come forma di ritorsione contro la decisione americana di ridurre il numero di accrediti stampa destinati ai media controllati dal governo cinese. Tutti i reporter, ovviamente, stavamo raccontando in modo scrupoloso e (evidentemente fin troppo) dettagliato gli sviluppi dell’epidemia nel Paese che per primo ha iniziato a lottare.

Intanto, gli ambasciatori cinesi si danno da fare per smentire gli articoli critici nei confronti di Pechino pubblicati dai giornali internazionali. È successo, tra gli altri, in Canada, Perù e Australia.

L’Ungheria di Orban e l’attacco alla democrazia

Infine, in Europa, non si può dimenticare l’attacco alla democrazia portato avanti dal governo dell’ungherese Viktor Orban (leggi anche Ungheria: Unione europea attacca Orban per deriva autoritaria). Con un decreto ufficialmente volto a contenere l’emergenza coronavirus, Orban ha di fatto aumentato considerevolmente il proprio campo d’azione.

Tra le misure adottate, ha fatto discutere un bavaglio imposto alla stampa, che rende punibile con fino a 5 anni di carcere chiunque diffonda informazioni «false» riguardanti la gestione dell’epidemia. Ancora una volta, la parola finale su cosa sia vero o meno spetta in modo arbitrario al premier stesso o ai suoi vicinissimi.

Rsf ha definito la decisione come una «legge orwelliana» che, di fatto, introduce un sistema di censura controllato dallo Stato e minaccia la sopravvivenza di qualsiasi forma di stampa indipendente.

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