Coronavirus: infermieri a domicilio senza dispositivi di protezione
A Milano e provincia gli infermieri che entrano nelle case delle persone ammalate spesso non hanno tutti i dispositivi di protezione individuale per lavorare in sicurezza. Una situazione pericolosa tanto per loro, quanto per la salute pubblica, visto che possono diventare veicolo di contagio del coronavirus
Marco Ferrantino è un infermiere che svolge servizio di assistenza domiciliare nella città di Milano. È esperto e svolge con scrupolo il suo lavoro da diversi anni. Poco tempo fa si è recato presso una donna di 85 anni, dimessa 20 giorni prima dal Policlinico di San Donato. Da qualche giorno accusava febbre alta, saturazione attorno all’80% e frequenza cardiaca accelerata, oltre 110 pulsazioni al minuto. Sintomi di un sospetto contagio da coronavirus.
È stata quindi attivata la normale procedura, contattando il medico di base che, non avendo i Dpi, ha preferito evitare il contatto con la paziente. Dopo due giorni la situazione non è migliorata, finché la donna è stata ricoverata e sottoposta a tampone, risultato positivo al Covid-19 e, dopo quattro giorni, è morta in ospedale.
«Quando sono entrato in contatto con la signora – spiega Ferrantino a Osservatorio Diritti – non avevo idea di cosa potesse avere e, in uso, avevo solo guanti e mascherina. Inoltre, accanto a lei, c’erano la sorella, anch’essa anziana, e la badante che usciva di casa per incontrare la sua famiglia o per fare la spesa. Ovviamente nessuno di loro aveva in dotazione dispositivi di protezione. Tutti noi potevamo diventare veicolo di contagio. Dobbiamo poter lavorare in sicurezza, per i nostri pazienti, per i loro familiari, per noi stessi e per la collettività».
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Coronavirus e infermieri: mancano dispositivi di protezione
Quella di Ferrantino è una situazione piuttosto diffusa tra gli infermieri di Milano e provincia che prestano servizio di assistenza domiciliare. Una categoria diventata ancor più essenziale dopo la recente scelta di curare i pazienti positivi al coronavirus a domicilio.
I Dispositivi di protezione individuale (Dpi) sono carenti e vengono recuperati e forniti agli operatori direttamente dagli enti gestori che operano per conto della Ats Milano su tutto il territorio meneghino. Se mascherine Ffp2 ed occhialini ora ci sono, anche se in misura limitata, esistono problemi per reperire le tute protettive idrorepellenti. Quelle che consentono di avvicinarsi a un paziente riducendo il rischio di essere contagiati e che vanno smaltite al termine di ogni servizio.
Si sono già registrati casi di operatori che effettuano servizio di Assistenza domiciliare integrata (Adi) positivi al coronavirus, ma è impossibile quantificarli con esattezza perché l’assistenza domiciliare non è organizzata in alcuna Regione.
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Chi sono gli infermieri domiciliari
Gli infermieri che operano a domicilio sono coloro che si recano a casa del paziente e avviano, insieme a lui e alla famiglia, un percorso. In media prestano servizio presso una decina di persone al giorno e possono essere facilmente esposti al contagio se non vengono adottate tutte le precauzioni. Oltre a poter diventare loro stessi veicolo di trasmissione del virus. Questi operatori, nella sola città di Milano, sono diverse centinaia.
Gli infermieri che hanno chiesto informazioni a Regione Lombardia sulla possibilità di ottenere dei dispositivi di protezione individuale si sono sentiti rispondere che al momento le forniture di dispositivi, purtroppo, non risultano sufficienti per far fronte a tutte le esigenze dell’intero sistema sociosanitario.
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Infermieri e coronavirus: morti e rischio contagio nelle Rsa
Beatrice Mazzoleni, segretaria della Federazione nazionale ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi), spiega a Osservatorio Diritti: «Ci auguriamo che con la previsione dell’infermiere di famiglia e di comunità contenuta nel nuovo Patto per la salute 2019-2021 si riesca a risolvere questo problema che, al di là del Covid-19, coinvolge i malati cronici, gli anziani, i non autosufficienti».
È utile fare un paragone con gli infermieri che prestano servizio nelle Rsa. «Un dato che mostra la situazione – continua Mazzoleni – è che il 32% dei decessi registrati tra gli infermieri (34 decessi in Italia al 17 aprile, ndr) sono avvenuti su professionisti al lavoro nelle Rsa, dove i dispositivi di protezione sono carenti davvero e non solo per gli operatori, ma anche per gli ospiti, tanto è vero che l’Istituto superiore di sanità ha avviato uno specifico rilevamento proprio in queste strutture. Tardi, purtroppo, rispetto alle situazioni che si sono registrate».
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Proprio in questi ultimi giorni l’attenzione pubblica è cresciuta proprio nei confronti delle Rsa, dove in alcune zone si è riscontrato un numero di decessi molto più alto rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
È urgente quindi mettere a disposizione di tutti gli operatori, anche degli infermieri che svolgono assistenza domiciliare, tutto quello che serve per lavorare in sicurezza. E le stesse protezioni vanno fornite ai caregiver, ossia a chi convive con il paziente cronico, dai familiari più stretti alle badanti. Persone che entrano inevitabilmente in contatto con fonti possibili di contagio, che possono trasmettere al loro familiare o alla persona che assistono.