Tibet, la lingua madre rischia di morire
La politica ufficiale cinese è quella dell'«educazione bilingue», ma nella pratica si traduce in una crescente marginalizzazione della lingua tibetana. Anche nelle scuole materne e in quelle primarie. Per i bambini tibetani è a rischio la possibilità di esprimere la propria identità
In Tibet la lingua madre rischia di morire. Dal 2010 le autorità cinesi hanno via via cambiato le proprie politiche verso le minoranze, passando dalla convivenza all’assimilazione. Ora, denuncia un report di Human Rights Watch (Hrw), si assiste a una pericolosa contraddizione.
Ufficialmente si parla di «educazione bilingue». Nella pratica, però, si osserva una crescente marginalizzazione della lingua tibetana anche nelle scuole materne e primarie. Un fenomeno in corso sia nella regione autonoma del Tibet (Tar), sia in altre aree abitate da popolazione di etnia tibetana.
Tashi, in prigione per aver difeso la lingua tibetana
La storia dell’attivista Tashi Wangchuck mostra quanto la lingua sia un elemento cruciale nella politica di «mescolanza etnica» del governo. Tashi, negoziante della provincia a maggioranza tibetana dello Qinghai, nel 2018 è stato condannato a 5 anni di prigione. Nella sua città, Yushu, la lingua tibetana non veniva quasi più insegnata: per difenderla sta pagando un prezzo altissimo.
«I miei nipoti vogliono imparare la lingua tibetana, ma non sanno dove andare. Le nostre parole andranno perdute», ha detto Tashi in un’intervista al New York Times.
Dal Tibet a Pechino per la libertà di parlare il tibetano
Nel 2015 l’attivista ha cercato di presentare una petizione ad una corte di Pechino per dare maggiore spazio all’insegnamento della lingua tibetana. Ne ha anche parlato pubblicamente in un documentario girato dal giornale. Pochi mesi dopo, all’inizio del 2016, è stato arrestato.
Nel 2018 i giudici lo hanno condannato. Secondo quanto riportato dalla ong, il capo d’accusa è «incitamento alla divisione del Paese» attraverso «la distorsione dello stato dell’educazione e dello sviluppo culturale nelle aree del Tibet, la diffamazione del governo affermando che restringe lo sviluppo delle culture minoritarie ed elimina le lingue e le culture delle minoranze, l’indebolimento dell’unità etnica, la stabilità sociale nelle aree tibetane e l’unità nazionale».
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Tibet: storia del tramonto della lingua madre
Il rapporto di Hrw spiega come la lingua cinese sia via via diventata quella principale in gran parte delle scuole della Tar.
«Dagli anni ’60, il cinese è la lingua dell’istruzione in quasi tutte le scuole medie e superiori della Tar, (…) ma le nuove pratiche educative introdotte dal governo nella Tar stanno ora portando più scuole primarie e anche asili a usare il cinese come lingua di insegnamento per gli studenti tibetani».
In molte scuole la lingua tibetana viene usata solo quando è la materia della lezione. In questo modo, però, denuncia ancora la ong, si riduce l’accesso dei bambini di etnia tibetana a un’educazione nella loro lingua madre.
Il cinese è la norma nelle scuole primarie urbane
Ormai, spiega Hrw, nelle scuole urbane l’uso del cinese è la norma e nelle aree rurali, in base a interviste raccolte dalla ong, il cinese è stato introdotto senza avvisi ufficiali a partire da marzo 2019. Come è accaduto?
Nel suo rapporto la ong registra prima di tutto un cambio di passo del governo centrale. In passato alle minoranze venivano lasciati degli spazi per conservare la propria cultura e la propria lingua. Dai primi anni ’80, la politica ufficiale del Partito comunista cinese era stata quella di rispetto delle minoranze, pur in un quadro di controllo politico. Nel 2014, però, dopo l’arrivo al potere di Xi Jinping, il governo cinese ha modificato la sua linea. Così, il modello dell’educazione bilingue in vigore dal 2010 ha avuto una traduzione inaspettata nella pratica.
«Le nuove politiche puntano ad aumentare l’assimilazione delle minoranze in Cina e chiedono ai funzionari pubblici di mettere al primo posto la “mescolanza etnica” delle nazionalità della Cina e “l’identificazione” delle nazionalità minoritarie con la “cultura cinese”. Il governo sostiene che queste misure sono necessarie per ottenere non solo sviluppo economico per le minoranze, ma anche “unità nazionale” e “stabilità nazionale” in Cina», si legge nel report.
Un cambio di passo che, spiega il rapporto, ha avuto ripercussioni dirette sull’operato delle autorità locali della Tar. I funzionari pubblici della regione si sono sempre manutenuti nell’ambiguità, non esponendosi troppo con le parole, ma attuando nei fatti una marginalizzazione della lingua madre tibetana.
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Insegnanti cinesi nelle scuole di Lhasa
In primo luogo, si è intervenuti sugli insegnanti. Tra il 1988 e il 2005, il numero di professori di scuole tibetane che non parlano la lingua tibetana è triplicato ed entro il 2020 altri 30 mila saranno mandati in Tibet e nello Xinjiang. Inoltre, almeno dal 2016 centinaia di insegnanti tibetani sono stati mandati in altre province per ulteriori attività di formazione e dal 2017 tutti gli insegnanti tibetani devono conoscere il cinese.
Non esistono dati aggiornati, ma già nel 2003 i maestri di scuola primaria che usavano il cinese nella Tar risultavano triplicati rispetto al 1991, arrivando a rappresentare un terzo del totale.
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Monasteri, tra religione e istruzione tibetana
Altre misure usate per favorire la diffusione del cinese sono legate alla chiusura delle scuole rurali, dove la lingua tibetana era più in uso, e la concentrazione dei bambini nelle scuole urbane.
Nelle aree tibetane, spiega il rapporto, alcune scuole private sono state chiuse e si ha notizia di tre monasteri tibetani chiusi nel 2018 nella parte tibetana della regione del Sichuan.
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Tibet, i diritti negati dei bambini nelle aule
Negare una reale educazione bilingue marginalizzando la lingua tibetana a partire dall’asilo e dalla scuola primaria va innanzi tutto a scapito dei bambini. Secondo il governo centrale, questo favorirà lo sviluppo economico delle minoranze. Per l’ong, invece, ci sono evidenze di come i bambini che non imparano nella loro lingua madre nei primi anni di educazione scolastica siano svantaggiati.
Oltre a questo, la questione è anche culturale: per Human Rights Watch, violando il diritto dei bambini a imparare nella loro lingua madre non si consente loro di esprimere liberamente e appieno la propria identità a scuola. Così si erodono le abilità linguistiche dei bambini, obbligati a «consumare ideologia politica e idee contrarie ai loro genitori e alla loro comunità».