Palestina: coronavirus, Israele non allenta stretta su Cisgiordania e Striscia di Gaza

Anche durante l'emergenza coronavirus il governo di Israele ha il dovere, in quanto potenza occupante, di garantire l’assistenza sanitaria ai palestinesi di Cisgiordania, Gerusalemme Est e Striscia di Gaza. Lo prevede il diritto internazionale. Eppure Tel Aviv continua a complicare la lotta all'epidemia in Palestina

Per la prima volta dopo sessant’anni, i protagonisti del più duraturo conflitto nel Medio Oriente si trovano davanti a un nemico comune, il coronavirus. Pochi giorni prima della celebrazione della Pasqua, Gerusalemme e Betlemme chiudono i principali luoghi sacri. Le dinamiche dell’occupazione, però, non si fermano.

Due tende per allestire una clinica da campo, quattro tendoni come alloggi di emergenza e due moschee: a questo erano destinati i pali e i teloni che lo scorso 26 marzo sono stati sequestrati dai funzionari dell’amministrazione civile israeliana nella comunità di Khirbet Ibziq, in Cisgiordania.

La denuncia arriva da B’Tselem, il centro informativo israeliano per i diritti umani nei territori occupati. In un comunicato stampa si precisa come le forze israeliane abbiano portato via anche un generatore di corrente e sacchi di sabbia e cemento, tutto materiale necessario per rendere funzionanti le due cliniche.

Ostacolare la creazione di cliniche da campo in un momento di emergenza sanitaria, destinando a questa operazione tempo e risorse, è un atto che contrasta con il rispetto dei diritti umani. Oltre a impedire la creazione delle cliniche da campo, l’amministrazione civile ha inoltre ordinato la demolizione di altre tre case di contadini nel villaggio di Ein a-Duyuk a-Tahta, nella zona a ovest di Gerico.

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Silwad, Cisgiordania – Foto: B’Tselem

Coronavirus in Palestina: gli obblighi di Israele

Le attività di demolizione da parte delle autorità israeliane si interrompono per l’emergenza sanitaria causata dal coronavirus, ma solo parzialmente. Il coordinatore delle attività israeliane nei Territori (Cogat) ha infatti fatto sapere all’Onu che l’esercito israeliano non eseguirà le demolizioni già programmate di case illegali in Cisgiordania. Ma secondo la stampa locale il premier, Benyamin Netanyahu, è intenzionato ad annettere in tempi brevi la Valle del Giordano e gli insediamenti ebraici, così come previsto dal piano del presidente statunitense, Donald Trump.

Questo nonostante il governo israeliano abbia la responsabilità di garantire, in quanto potenza occupante, l’assistenza sanitaria necessaria ai palestinesi della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e della Striscia di Gaza. Lo stabilisce l’articolo 56 della Quarta Convezione di Ginevra.

«Il diritto alla dignità umana richiede che tutte le persone sotto l’autorità israeliana godano della parità nell’accesso al trattamento e ai servizi sanitari».

Lo ha dichiarato Michael Lynk, relatore speciale delle Nazioni Unite per la situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi occupati dalla Guerra dei sei giorni del 1967.

Lynk ha sottolineato infatti come le prime comunicazioni ufficiali sul Covid-19, rilasciate dal ministero della Sanità israeliano, siano state inizialmente pubblicate solo in lingua ebraica, senza alcuna informazione aggiuntiva in arabo. Inoltre, ha ribadito Lynk, «qualsiasi restrizione ai diritti umani, come l’accesso ai servizi o la libera circolazione, deve essere strettamente giustificata, proporzionata e limitata al periodo di tempo necessario in modo non discriminatorio».

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Betlemme e Ramallah: primi casi di coronavirus in Cisgiordania

Per il momento, la lotta dell’Autorità palestinese (Ap) al Covid-19 è incentrata sulla città di Betlemme, dove sono emersi i primi casi, e su quella di Ramallah. Lo scorso 5 marzo infatti sette dipendenti dell’Angel Hotel sono risultati positivi al coronavirus. Dopo tre settimane sono 214 i casi di contagio accertati in Cisgiordania, mentre quelli in Israele sono più di 8.000, dove le vittime sono 46 (dati aggiornati al 5 aprile).

La prima vittima della pandemia in Cisgiordania è arrivata mercoledì 26 marzo: una donna sessantenne originaria di Biddu, un villaggio a nord di Gerusalemme. Il primo ministro palestinese, Mohammad Shtayyed, ha subito chiesto il blocco di Betlemme e ha dichiarato lo stato di emergenza.

Striscia di Gaza e coronavirus: coprifuoco e lockdown

Dopo 13 anni di blocco da parte del governo israeliano, gli abitanti della Striscia di Gaza, quasi 2 milioni di persone, dovranno fronteggiare anche il coprifuoco imposto per prevenire la diffusione del Covid-19. Le autorità di Hamas, il partito che governa la Striscia dal 2007, hanno infatti imposto la chiusura di scuole, ristoranti e il divieto di grandi raduni, compresa la preghiera del venerdì.

Le misure sono state comunicate dopo che i funzionari della sanità di Gaza hanno confermato, lo scorso 22 marzo, i primi due casi di coronavirus. Sarebbero due lavoratori palestinesi in ritorno dal Pakistan. I due sono stati tempestivamente isolati nella città di Rafah, vicino al valico con l’Egitto. In quarantena anche altre sette persone, per un totale di dodici persone contagiate (dati aggiornati al 5 aprile), mentre quelle in isolamento dentro scuole e hotel sarebbero circa 1.700.

In un comunicato stampa ufficiale il capo di Hamas avrebbe anche chiesto l’unità di tutte le forze palestinesi a livello nazionale, per far fronte comune alla pandemia di coronavirus. Il portavoce di Hamas, Hazem Qassem, ha inoltre esortato il presidente dell’Ap, Mahmoud Abbas, a revocare le sanzioni imposte dal 2017.

Questi pochi casi sono stati sufficienti per allertare il sistema sanitario della Striscia di Gaza, già allo stremo da diversi anni a causa del blocco da parte dello stato israeliano. Decenni di restrizioni, oltre a incidere sull’approvvigionamento di medicine e apparecchiature sanitarie, hanno infatti gravato anche sulla formazione del personale medico e ospedaliero.

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Una donna palestinese passa il checkpoint di Hebron – Foto: B’Tselem

Striscia di Gaza, una catastrofe annunciata

Non solo coronavirus. Il 2020 è proprio l’anno indicato dalle Nazioni Unite come quello in cui la Striscia di Gaza potrebbe diventare un luogo inabitabile. L’economia locale è in caduta libera, con la disoccupazione giovanile al 70% e quasi l’80% della popolazione che dipende in maniera diretta dagli aiuti umanitari.

La quotidianità degli abitanti è inoltre scandita dalla cronica mancanza di acqua potabile e da continui blackout elettrici. Secondo l’associazione israeliana Physicians for Human Rights – Israel (Phri), in tutta la Striscia di Gaza ci sarebbero solo 70 posti letto in terapia intensiva, per una popolazione di circa due milioni di persone.

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Striscia di Gaza – Foto: Pixabay

Anche le capacità di porre in regime di isolamento un gran numero di persone potrebbe rappresentare un’ardua sfida per le autorità locali. La Striscia di Gaza è infatti uno dei luoghi più densamente popolati al mondo, con più di 4.500 abitanti per km² (in Italia per esempio sono 206 abitanti per km²).

Ad aggravare ulteriormente la situazione c’è anche la sospensione della distribuzione degli aiuti umanitari, da cui dipende la vita nella Striscia. L’Unrwa, agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, ha annunciato che la consegna degli aiuti umanitari sarà temporaneamente sospesa finché non si troverà una modalità di erogazione sicura per gli abitanti e per gli operatori.

L’Organizzazione mondiale della Sanità ha inviato i primi tamponi e il materiale protettivo e disinfettante per i medici della Striscia. Aiuti anche dal Qatar, che invierà 150 milioni di dollari nei prossimi sei mesi. Infine l’intervento dell’Ocha, l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, che il 27 marzo ha pubblicato un piano di risposta alla diffusione del Covid-19 all’interno dei Territori palestinesi occupati.

Coronavirus: carcerati e lavoratori palestinesi in Israele

Mentre la società israeliana si blinda in casa per contrastare la pandemia, ai prigionieri politici palestinese è stato vietato di incontrare avvocati e ricevere visite familiari, attività che invece rimangono consentite agli altri detenuti. Sono le nuove restrizioni attive dal 15 marzo per contrastare la nuova pandemia, che includono anche il divieto di usare telefoni, fatta eccezione per le comunicazioni con i propri legali in caso di udienza imminente. Le nuove regole rimarranno in vigore per almeno un mese e potranno essere prorogate a intervalli di un mese. Nel febbraio 2020 erano circa 5.000 i detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, 430 dei quali in stato di detenzione amministrativa.

Critica anche la situazione dei lavoratori palestinesi in Israele o negli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Sono infatti quasi 100.000 i palestinesi che si recano quotidianamente in Israele per ragioni lavorative, i cui salari rappresentano circa il 14% del Pil totale della Cisgiordania.

Di questi, circa la metà si trovano ora a dover rimanere nelle proprie abitazioni per limitare i contagi, senza indennizzi né retribuzioni. Il 22 marzo il primo ministro palestinese Mohammed Shtayyeh ha ordinato a migliaia di lavoratori di tornare da Israele a causa del rischio contagio e dei maltrattamenti denunciati da molti dipendenti. Molti datori di lavoro israeliani non avrebbero infatti fornito alloggi adeguati a quei lavoratori costretti a rimanere in Israele per evitare la diffusione del virus. Tanti anche i lavoratori palestinesi respinti nei check point dalle autorità israeliane a causa di presunti sintomi influenzali.

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