India, il coronavirus mette alla prova il secondo Paese più popoloso al mondo
Il governo Modi ha annunciato tre settimane di chiusura del secondo Paese più popoloso al mondo per contenere il contagio: cosa significa per 1,7 milioni di senzatetto e per chi vive nelle baraccopoli
Con la pandemia di Covid-19 ormai dilagata in tutto il mondo è chiaro che il coronavirus non conosce confini e colpisce indiscriminatamente, ricchi e poveri, a tutte le latitudini. Eppure per qualcuno la quarantena, le norme igieniche, l’impossibilità di lavorare o, eventualmente, di accedere alle cure, sono meno tollerabili che per qualcun altro: senzatetto, migranti, carcerati, le fasce più povere o che vivono in condizioni precarie.
E se il virus ha messo in ginocchio Cina ed Europa – dove gli standard, le infrastrutture e l’assistenza sanitaria sono considerate eccellenze mondiali – si teme che la sua diffusione in Paesi con alti indici di povertà e sovrappopolazione come l’India, si trasformi in una catastrofe.
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India: l’epidemia e il coprifuoco
I primi casi di coronavirus in India – tre studenti di ritorno da Wuhan, Cina – sono stati individuati il 30 gennaio nello stato del Kerala. Per i primi tempi il contagio è stato contenuto, poi i casi hanno iniziato a moltiplicarsi. I casi accertati nel subcontinente sono 724 e 17 persone sono morte (dati aggiornati al 27 marzo).
Dopo un’iniziale incertezza, il 22 marzo il primo ministro Narendra Modi ha indetto mezza giornata di chiusura totale del paese, il “Janata curfew”, chiedendo alle famiglie di osservare 14 ore di auto-reclusione e invitandole ad uscire sui balconi, suonare piatti e pentole e applaudire i medici, in prima linea contro l’emergenza. Un appello che in alcuni casi si è trasformato in un momento di celebrazione collettiva.
Coronavirus in India: i numeri dell’emergenza
E mentre erano state chiuse le frontiere, anche al traffico aereo internazionale nel tentativo di contenere il contagio e limitare quello interno, il 23 marzo il premier del secondo Paese più popoloso al mondo ha imposto la chiusura totale per 21 giorni delegando ai governi statali l’imposizione di misure adeguate che si sono tradotte in coprifuoco implementato a suon di manganello, chiusura dei confini statali e blocco dei trasporti. Con anche l’India ferma, un terzo della popolazione mondiale è in questo momento affetto da qualche forma di restrizione nel tentativo di contenere la pandemia.
Con una popolazione di 1,38 miliardi di persone, di cui un terzo che vive in povertà, l’India sarà un banco di prova enorme nella lotta globale contro il Covid-19. I numeri dell’epidemia sembrano per il momento contenuti, ma è anche vero che è stato effettuato un numero di tamponi molto esiguo (15 mila).
Jayaprakash Muliyil, un noto epidemiologo, ha affermato che fino al 55% della popolazione del paese – circa 715 milioni di persone – potrebbe essere contagiata dal virus, mentre alcune stime suggeriscono che l’India potrebbe vedere circa 30 mila decessi entro maggio.
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Covid-19 in India: il contagio in un Paese da 1,38 miliardi di abitanti
La maggior parte dei paesi dell’Asia Meridionale ha chiuso i propri confini già dieci giorni fa se non prima, ma il numero di casi confermati di coronavirus continua ad aumentare, soprattutto in Malesia, Pakistan e India.
La tendenza, secondo gli esperti, suggerisce che la regione è passata dalla fase due dell’epidemia, quando il contagio avviene da persone rientrate da paesi stranieri, alla fase tre, quando il virus si diffonde in maniera autonoma all’interno della comunità. E mentre il governo ha allestito dei centri di quarantena per chi rientra da zone a rischio, molti dei primi casi – il più noto quello della cantante di Bollywood, Karina Kapoor, rientrata dal Regno Unito sfuggendo ai controlli e alla quarantena e partecipando a feste ed eventi sociali – erano proprio di persone tornate dall’estero. In alcuni casi, i raduni religiosi hanno contribuito ad amplificare il contagio.
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L’impatto del confinamento per la popolazione indiana
L’impatto del confinamento in un paese di oltre un miliardo di persone ha avuto conseguenze devastanti. I lavoratori migranti, venditori ambulanti, i lavoratori a giornata, e tutti quelli impiegati nel settore informale che in India costituisce la maggior parte dell’economia, sono stati fortemente colpiti dallo tsunami economico.
I licenziamenti di massa hanno costretto i lavoratori migranti a scappare a casa, alcuni senza neanche essere stati pagati. Molti di loro sono rimasti bloccati: con i trasporti cancellati, alcune famiglie hanno dovuto camminare per centinaia di chilometri per fare ritorno a casa.
Gli aiuti offerti per ora dalle autorità differiscono su base statale e il governo centrale sta lavorando per far fronte all’incombente emergenza economica. Il governo ha stanziato un pacchetto economico di oltre 1,5 trilioni di rupie (più di 20 miliardi di euro) che sosterrà i settori e le fasce di popolazione più colpite dal blocco. Molti Stati hanno già annunciato trasferimenti di denaro diretti a milioni di poveri e lavoratori, pensioni anticipate per anziani e disabili e hanno messo a disposizione razioni di cibo e medicine.
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India: senzatetto e baraccopoli ai tempi del coronavirus
Il rispetto della distanza sociale e delle norme igieniche è fondamentale per combattere il virus e rallentare il contagio. Ci sono però categorie di persone che vivono in condizioni tali da non permettere il rispetto di tali minime norme. In India i senzatetto sono 1,77 milioni di persone, che vivono in strada senza alcun tipo di protezione.
Poi ci sono quanti vivono nelle baraccopoli, tra i 70 e i 100 milioni di persone. «I dormitori pubblici in cui passano la notte i lavoratori a giornata, i migranti e i senzatetto, presi d’assalto in questi giorni, sono sovraffollati, non ci sono linee guida per il mantenimento delle norme igieniche e della giusta distanza, non ci sono acqua e servizi adeguati», spiega a Osservatorio Diritti Sunil Kumar Aledia, dell’ong Centre for Holistic Development (Chd) che da anni si occupa delle condizioni di vita degli oltre 150 mila senzatetto della capitale indiana.
«Il centro di Delhi è una zona ad alto rischio. Ci sono circa 8.000 persone, che vivono lungo la riva del fiume Yamuna vicino al Nigambodh Ghat. Migliaia di lavoratori senzatetto stipati nei prefabbricati usati come dormitori che diventano luoghi insalubri per il cronico sovraffollamento e le condizioni igieniche precarie».
Il Chd ha fatto appello al governo centrale e a quello statale affinché le scuole adesso chiuse e gli edifici vuoti vengano usati per ospitare i lavoratori senzatetto, che l’ong chiama “citymakers” per il contributo che danno alla vita della città. Non c’è abbastanza cibo per tutte le persone che si stanno presentando ai dormitori in questi giorni: centinaia di persone che non sanno dove altro andare. Si tratta di spazzini, autisti di risciò, muratori, imbianchini e camerieri, venditori ambulanti, domestici: erano venuti nella capitale in cerca di un lavoro e spesso sono finite a vivere in strada o nelle baraccopoli. Attivisti per i diritti umani chiedono una moratoria sull’abbattimento degli slum definiti illegali.
Limitazione dei danni e servizio sanitario nazionale
L’India è anche l’epicentro della crisi globale di tubercolosi, la più letale tra le malattie infettive. L’incidenza della tubercolosi sui residenti senzatetto o delle baraccopoli è molto alta, spesso unita ad altre patologie che rende questa fascia di popolazione ancora più vulnerabile al virus.
L’approccio dei governi nel campo della salute pubblica nel corso degli anni è stato in gran parte limitato al controllo dei danni. E in questo caso non sembra diverso. L’India ha a disposizione un numero esiguo di posti in terapia intensiva: 0,55 per mille abitanti. L’assistenza sanitaria privata è molto cara e non alla portata di molte famiglie povere alle quali resta come unica opzione affidarsi ai tempi e agli standard delle fatiscenti strutture sanitarie pubbliche.
La gestione della crisi del coronavirus da parte del primo ministro indiano Narendra Modi è stata criticata da attivisti e gruppi per i diritti umani anche perché è di recente emerso che il suo governo ha deciso di portare avanti un accordo sulle armi con Israele del valore di 116 milioni di dollari nonostante l’incipiente crisi legata al coronavirus e la scarsità di materiali, strumenti e protezioni che lamenta il personale medico.