Sistema sanitario e coronavirus: Italia pronta alla guerra, non alla pace
L’emergenza coronavirus ha fatto venire alla luce deficienze strutturali del sistema sanitario nazionale italiano. E un paradosso: l’Italia è pronta per affrontare un conflitto armato, non per contrastare un’epidemia. È ora di ripristinare il ruolo delle associazioni della società civile
È ormai evidente a tutti: il nostro Paese non era preparato a fronteggiare un’epidemia come il coronavirus. Non solo per la carenza di mascherine, di camici medici, di protezioni, di tamponi e di altri strumenti di basso costo e di facile produzione. Ma soprattutto per la mancanza di apparecchi, come i ventilatori polmonari, che sono essenziali ai reparti di terapia intensiva per salvare le persone colpite nella forma più grave da coronavirus (Covid-19). Una carenza che ha messo i medici di fronte ad un dilemma: chi curare?
Lo ha rivelato, con disarmante franchezza, Christian Salaroli, dirigente medico dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo.
«Siccome purtroppo c’è sproporzione tra i posti letto in terapia intensiva e gli ammalati critici, non tutti vengono intubati. Si decide per età e per condizioni di salute. Come in tutte le situazioni di guerra. Non lo dico io, ma i manuali sui quali abbiamo studiato», ha dichiarato Salaroli intervistato dal Corriere della Sera. E i manuali confermano.
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Coronavirus e linguaggio di guerra: errore di prospettiva
In questi giorni molti, dai leader politici ai governatori delle Regioni, dai giornalisti ai soliti commentatori da salotto che inondano i talk-show televisivi, usano il linguaggio della guerra. «Siamo in guerra», dicono. E, di conseguenza, occorrono gli strumenti e i mezzi che si mettono in atto durante una guerra, compreso lo schieramento delle forze militari, il “coprifuoco” e le limitazioni forzose alle libertà individuali. È un colossale errore di percezione e di prospettiva.
Perché un’epidemia, una pandemia, non sono un nemico che usa mezzi e tecniche militari, ma una malattia da contrastare. E vanno contrastate non solo con i mezzi della medicina e gli strumenti della scienza, ma con il coinvolgimento responsabile e partecipe della popolazione.
Una guerra tra Stati è diversa da un attentato di terrorismo, da un conflitto asimmetrico, dalla guerriglia, ecc.: conflitti che a loro volta sono diversi da una pandemia. Usare il linguaggio della guerra è facile e magari d’impatto sulla popolazione, ma è un gigantesco errore di rappresentazione. Il problema semmai è un altro: il nostro Paese ha mezzi e strumenti per fronteggiare un conflitto armato, ma è totalmente impreparato per contrastare un’epidemia. Lo dimostro.
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Esercito impiegato per produrre ventilatori polmonari
«Serve un’economia di guerra per far fronte all’emergenza coronavirus». È stata la prima dichiarazione del neo commissario all’emergenza coronavirus, Domenico Arcuri. «Come nelle guerre – ha aggiunto – dobbiamo produrre prima possibile quello che ci serve. Stiamo riconvertendo sistemi produttivi e importando industrie che ora sono localizzate altrove. Dobbiamo dotare il maggior numero di ospedali di strumenti per le terapie intensive e inondare l’Italia di tutto quello che serve». Il riferimento ai ventilatori polmonari è evidente, così come la necessità di «riconvertire sistemi produttivi».
In Italia vi è, infatti, una sola azienda che produce quei respiratori artificiali: la Siare Engineering di Valsamoggia, un paesino alle porte di Bologna. Un’azienda con soli 35 dipendenti che produce un fatturato di 11 milioni all’anno. «In Italia abbiamo sempre lavorato pochissimo, con oltre il 90% della produzione destinata ai mercati esteri», afferma il fondatore e presidente della Siare, Giuseppe Preziosa. È in questa azienda che arriveranno 25 uomini dell’Esercito italiano per aumentare la produzione. Perché questa operazione sia stata affidata ai militari, invece che a dei tecnici civili, resta un mistero.
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L’Italia punta più su sistemi militari che apparecchi medici
Il paradosso è che l’Italia è preparata per produrre mezzi e strumenti per la guerra, ma è costretta a importare macchinari e apparecchi per curare le malattie. Lo rende evidente un confronto dei dati ufficiali delle relazioni della Presidenza del Consiglio e del commercio estero dell’Istat. Negli ultimi anni l’Italia ha prodotto ed esportato sistemi e materiali militari per una media di 2,5 miliardi di euro (ne ha importati per meno di 500 milioni di euro), ma ha dovuto importare “Strumenti per irradiazione, apparecchiature elettromedicali ed elettroterapeutiche” per 1,2 miliardi di euro (esportati per circa 850 milioni di euro) ed ha importato “Strumenti e forniture mediche e dentistiche” per circa 6,5 miliardi di euro (esportati per 5,8 miliardi).
Quindi un saldo ampiamente positivo per le esportazioni di sistemi militari (2,5 miliardi di euro di esportazioni e 500 milioni di importazioni), ma deficitario per gli apparecchi medici (7,7 miliardi di euro di importazioni e 6,65 miliardi di esportazioni).
Se poi si considera che nell’ultimo triennio (dal 2016 al 2018), grazie al sostegno politico dei vari governi, l’industria militare italiana è riuscita ad accaparrarsi ordinativi internazionali per oltre 30 miliardi di euro, risulta ancor più evidente lo sbilanciamento a favore del settore militare.
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Golden power sull’industria di guerra, ma il Sistema sanitario nazionale non è ritenuto strategico
Non è solo un problema di import-export. I dati succitati esplicitano un’evidenza poco nota alla gran parte dei cittadini. Lo Stato italiano – di fatto il Governo attraverso il ministero dell’Economia e delle Finanze – è il maggiore azionista di tutte le maggiori aziende di produzione militare come il gruppo Leonardo (ex Finmeccanica), che produce tutto l’arsenale bellico dai caccia ai missili, dai blindati ai cannoni, e Fincantieri (il 30% della sua produzione è militare).
Non solo: attraverso il golden power (che ha sostituito la “golden share”), esercita un controllo fondamentale anche sulle imprese private «operanti in ambiti ritenuti strategici e di interesse nazionale». Tra queste aziende figurano tutte quelle nei settori dell’energia, dei trasporti, delle comunicazioni e, ovviamente, tutte quelle del settore militare e degli armamenti, ma non quelle del settore medico-sanitario.
In parole semplici, lo Stato italiano considera “strategiche e di interesse nazionale” le imprese di alcuni settori, ma non quelle del settore medico-sanitario. L’assunto è che le apparecchiature prodotte da queste aziende si possono facilmente reperire nel libero mercato globale: quanto sia fallace ed illusorio questo assunto lo dimostra la cruda evidenza della irreperibilità in questi giorni dei ventilatori artificiali e degli apparecchi per analizzare i tamponi.
Investimenti in sanità e difesa: ecco come funziona
Ma c’è di più. L’impatto dell’epidemia ha reso evidente la carenza di posti letto in terapia intensiva: secondo i dati Ocse, nel 2017 l’Italia poteva contare su 2,6 posti letto ICU totali ogni 1.000 abitanti, classificandosi al 19° posto su 23 paesi europei, meno di quelli della Germania. Ciò è dovuto al costante indebolimento del Sistema Sanitario Nazionale a fronte di una ininterrotta crescita di fondi a favore delle spese militari e dell’industria degli armamenti.
Lo hanno denunciato, dati alla mano, la Rete italiana per il disarmo e la Rete per la pace in un comunicato congiunto. «Mentre la spesa sanitaria ha subìto una contrazione complessiva rispetto al Pil passando da oltre il 7% a circa il 6,5% previsto dal 2020 in poi, la spesa militare ha sperimentato un balzo in avanti negli ultimi 15 anni con una dato complessivo passato dall’1,25% rispetto al Pil del 2006 fino a circa l’1,40% raggiunto ormai stabilmente negli ultimi anni».
Investiamo, quindi, sempre più per la difesa armata e sempre meno per le cure sanitarie. Senza dimenticare che, mentre le Forze armate contano tuttora di un personale in sovrabbondanza, i medici e il personale sanitario sono carenti.
Piano sanitario nazionale e Libro Bianco della Difesa
Non è una questione solo di stanziamenti e di fondi. È un problema di modello e di pianificazione. Lo evidenzia con chiarezza l’ultimo rapporto della Fondazione Gimbe dal quale emerge la «mancanza di un disegno politico di lungo termine per preservare e potenziare la sanità pubblica» e la necessità di «aumentare le capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni nel rispetto delle loro autonomie».
Come noto, infatti, il Piano sanitario nazionale viene predisposto dal Governo, ma la sua adozione spetta, nel concreto, alle Regioni sulla base dei propri Piani sanitari regionali. Una fondamentale differenza rispetto al “modello di difesa” che è, invece, definito a livello nazionale dal ministero della Difesa. Così, mentre esiste un “Libro Bianco della Difesa” con lo scopo di «affrontare con razionalità, metodo e lungimiranza il problema della sicurezza e della difesa del Paese, non limitandosi alla pur doverosa gestione degli eventi improvvisi», non esiste invece un simile “Libro Bianco della Sanità”.
Ciò fa sì che vi sia una pianificazione per i momenti di crisi nel settore della difesa, mentre è assente per quanto riguarda il settore sanitario. Mentre i nostri apparati militari si esercitano alla difesa armata e alla guerra (come l’esercitazione militare Usa/Nato Defender Europe 20), le nostre strutture sanitarie e i nostri medici non solo mancano di mezzi e apparecchi adeguati, ma di un metodo, di una pianificazione per far fronte a un’emergenza.
Ripartire dalla società civile
Innanzitutto sarebbe bene cominciare a rendersi conto di un’evidenza: l’Italia è preparatissima per fronteggiare un conflitto armato, mentre è ampiamente inadeguata a contrastare un’epidemia come quella da coronavirus. Se questo è vero, occorre aggiungere un’altra consapevolezza: le minacce in campo chimico, batteriologico, radiologico e nucleare (Cbrn) non si possono fronteggiare solo con le conoscenze e l’approccio dei tecnici, delle aziende militari e di qualche istituzione sanitaria, come sta facendo il Cluster CBRN-P3.
Andrebbero, invece, coinvolte e valorizzate le competenze della società civile, soprattutto quelle che da decenni sono attive nei settori del volontariato, dell’associazionismo, della cooperazione e del servizio civile. Sono le associazioni che – guarda caso – sono state di fatto estromesse dal processo di elaborazione del “Libro Bianco per la Difesa”.
Queste associazioni hanno elaborato la proposta di legge di iniziativa popolare per la “Difesa civile, non armata e nonviolenta”. Si tratta di ben sei reti composte da più di un centinaio di associazioni. La gran parte, già dagli anni Ottanta, mise in campo iniziative per la riconversione dell’industria militare (poi confluite nella Legge 185 del 1990 che dedica uno specifico comma alla riconversione, comma sostanzialmente inapplicato).
Sarebbe bene cominciare a riflettere sull’importanza e sul ruolo delle associazioni della società civile. Soprattutto in questi giorni in cui taluni invocano l’intervento dell’Esercito per far rispettare le norme decise dal governo. Chi si illude di poter contrastare efficacemente questa emergenza e magari anche la prossima pandemia con mezzi militari o ripristinando “l’economia di guerra” farebbe bene ad interpellarle. Ne va non solo della nostra salute, ma della nostra democrazia.