Iraq: popolazione in fuga dai campi per mancanza d’acqua
La scarsa manutenzione dei canali e degli impianti di irrigazione, l'inquinamento e la crescente scarsità di risorse idriche hanno messo in ginocchio la popolazione delle regioni meridionali dell'Iraq. Migliaia gli sfollati, che pagano sulla propria pelle la storia del paese e la crisi climatica
Basim ha lasciato meloni e girasoli nei campi, ad appassire. Prima del raccolto, lui e la sua famiglia hanno abbandonato la loro casa, nel distretto rurale di Thi-Qar, nel Sud dell’Iraq, per raggiungere Bassora, dove l’uomo spera di trovare lavoro come bracciante agricolo. Vicino all’abitazione ormai abbandonata dell’uomo scorre un canale semi-asciutto, punteggiato da pozze d’acqua stagnanti. «Persino gli animali si rifiutano di berla», commenta un vicino di casa di Basim.
Anche Khaled e suo figlio hanno lasciato da poco la loro casa, nel villaggio di Dawaya, per lavorare come braccianti nel governatorato di Kerbala. La moglie e la figlia resteranno ancora per qualche mese nella loro casa: il tempo necessario per vendere gli ultimi animali e mettere da parte un po’ di soldi, prima di raggiungere il resto della famiglia.
Nel Sud dell’Iraq – per la precisione nei governatorati di Bassora, Misan e Thi-Qar – il crescente degrado ambientale, alimentato dall’inquinamento delle acque e dagli effetti del cambiamento climatico spinge sempre più persone a lasciare i propri villaggi alla ricerca di un futuro migliore.
I numeri sono allarmanti: secondo le stime dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni, in queste tre regioni la carenza d’acqua avrebbe provocato quasi 15 mila nuovi sfollati a partire da gennaio 2019.
La denuncia di questa situazione arriva dal Norwegian refugee council, che ha fotografato la difficile situazione dei tre governatorati meridionali dell’Iraq all’interno del report When canals run dry. Il cambiamento climatico – si legge nel documento – ha compromesso la capacità delle famiglie di mantenersi con il lavoro nei campi e con l’allevamento di bestiame. Costringendo decine di migliaia di persone a lasciare le proprie case.
Tra coloro che hanno scelto di restare, quasi il 60% dei contadini deve adattarsi a coltivare meno terra rispetto al passato a causa della mancanza d’acqua. E quella poca che è disponibile spesso ha alte concentrazioni di sale, oppure è inquinata a causa dell’uso intensivo di pesticidi o oli industriali.
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Iraq tra storia, crisi climatica e guerra per l’acqua
Il panorama delle regioni meridionali dell’Iraq è disegnato dai canali artificiali progettati e costruiti per deviare le acque del Tigri e dell’Eufrate con cui coltivare terreni altrimenti desertici. Fino agli anni Novanta i raccolti erano abbondanti e sufficienti a garantire buone condizioni di vita a contadini e ad allevatori. Ma partire dagli anni Duemila – dopo la caduta del regime di Saddam Hussein – sono venuti a mancare piani governativi strutturali capaci di risollevare il settore agricolo nel Sud dell’Iraq: le infrastrutture idrogeologiche danneggiate dalla guerra non sono state riparate ed è mancata la manutenzione di quelle ancora funzionanti.
La situazione è destinata ad aggravarsi per effetto della crisi climatica che ridurrà la portata d’acqua del Tigri e dell’Eufrate: la diminuzione delle precipitazioni a monte dei due fiumi (un calo previsto del 16% attorno al 2050) porterà Paesi come la Siria e la Turchia ad aumentare la capacità delle numerose dighe costruite nei decenni passati.
La guerra per l’acqua che si combatte nell’antica Mesopotamia vede l’Iraq in una posizione di netto svantaggio. E il governo stima per il 2035 una riduzione del 35% della quantità d’acqua che arriva nel Paese rispetto al 2015.
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Iraq, popolazione colpita dalla crisi ambientale
In un mondo sempre più caldo e con meno acqua aumenteranno anche le aree a rischio desertificazione: «Le stime suggeriscono che l’Iraq perderà circa 250 chilometri quadrati di terra arabile all’anno, con evidenti effetti a catena sui mezzi di sussistenza della popolazione rurale», si legge nel report.
Il degrado ambientale ha gravemente compromesso i mezzi di sussistenza rurali della popolazione nei governatorati del Sud dell’Iraq. La terra arabile è sempre meno, i contadini sono sempre più dipendenti dalle piogge (scarse) per coltivare i propri campi e anche gli allevatori hanno sofferto le conseguenze del cambiamento climatico.
Il 77% degli allevatori di Missan, il 65% a Thi-Qar e il 27% di Bassora hanno dichiarato di aver perso il bestiame a causa della mancanza d’acqua con cui abbeverare gli animali. Mentre, secondo le stime del ministro dell’Agricoltura, nei tre governatorati la percentuale di terreno dedicato alla coltivazione di grano e orzo è calata del 12% tra il 2016 e il 2017.
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L’inquinamento delle acque impatta direttamente anche sugli abitanti della regione. A metà 2018 circa 118 mila persone sono state ricoverate in ospedale a Bassora per aver bevuto acqua di rubinetto contaminata. Mentre nelle aree rurali – dove i contadini non possono più attingere direttamente dai fiumi – oggi è fondamentale l’acquisto di acqua in bottiglia o in auto-cisterna. Con costi che possono variare tra i 120 e i 140 dollari a famiglia, in un contesto in cui lo stipendio medio di un insegnante oscilla attorno ai 330 dollari.
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Oggi i contadini si spostano verso le città dell’Iraq in cerca di una vita migliore
In questo contesto già difficile «la capacità individuale di adattamento delle persone che dipendono dai mezzi di sussistenza rurali è limitata», si legge ancora nello studio. La maggioranza dei contadini di queste aree non può permettersi gli investimenti necessari e modernizzare i propri metodi di coltivazione.
In questo contesto, sempre più famiglie scelgono di lasciare le proprie terre. In alcuni villaggi, soprattutto nel governatorato di Thi-Qar, quasi metà delle case sono vuote.
«Il punto di non ritorno arriva quando hai speso tutti i tuoi soldi per preparare il campo, ma il raccolto non arriva. Oppure quando devi vendere i tuoi animali perché non riesci a mantenerli. È quello il momento in cui sei costretto a partire. Molti lavorano come braccianti presso altri coltivatori», dice Jafar, uno sfollato di Thi-Qar.
Tra chi decide di partire, solo una minoranza lo fa con l’idea di andare a svolgere un lavoro stagionale in un’altra provincia (il 41% degli intervistati). Il 59% degli intervistati, infatti, ha dichiarato di essersi trasferito con tutta la famiglia. Un elemento che, sottolinea il rapporto, «suggerisce un progetto migratorio di lungo periodo».
I villaggi si svuotano, una famiglia dopo l’altro, depauperando il tessuto sociale delle aree rurali. «I miei vicini si sono trasferiti a Zubair tre o quattro mesi prima di noi e hanno iniziato a lavorare nei campi o nel settore delle costruzioni. Ci hanno detto che questa decisione ha portato molti vantaggi, più di quelli che avrebbero avuto restando nel villaggio. Così abbiamo deciso di partire per cercare lavoro come braccianti giornalieri», racconta Qassim, un altro sfollato della regione di Thi-Qar.