Eni Nigeria: sul processo per corruzione pesa ancora l’ipotesi depistaggio

In Nigeria gli investigatori cercano di fermare i vecchi politici coinvolti nella trattativa per la licenza Opl 245, anche sulla base delle indicazioni della procura di Milano. Al processo per corruzione che coinvolge Eni e Shell e che ipotizza una maxi tangente da 1,1 miliardi di dollari, però, ci sono da diradare le nebbie del depistaggio: secondo Amara, Eni avrebbe intercettato anche i magistrati

Il 30 gennaio 2020 l’Alta corte di Abuja, capitale della Nigeria, ha disposto l’arresto dell’ex ministro del petrolio Dan Etete, l’uomo dei misteri di Malabu Oil & Gas. La società nigeriana è depositaria della licenza Opl 245, al centro del caso di corruzione internazionale che vede alla sbarra le compagnie petrolifere Eni e Shell a Milano.

Per l’Economic financial crime commission (Efcc), una sorta di Guardia di finanza del Paese africano, la cattura di Etete è «fondamentale» per chiarire come sia stata attribuita la licenza e se davvero ci sia stata corruzione.

La vicenda Opl 245 in questo momento è sotto indagine in Nigeria, in Italia, negli Stati Uniti e nei Paesi Bassi, con elementi di prova provenienti anche dalla Svizzera. In Italia la fase processuale è già avanzata, mentre gli altri Paesi sono più indietro. La Nigeria sta entrando solo ora nel pieno delle indagini. Ogni aggiornamento da uno di questi fronti potrebbe condizionare l’andamento anche degli altri processi.

Dan Etete al momento si trova in una località sconosciuta e gli inquirenti nigeriani hanno chiesto il supporto dell’Interpol per arrestarlo. Forse Dubai, città dove si trovava anche l’ex ministro della giustizia Mohammed Adoke Bello – il quale, secondo l’accusa, avrebbe garantito che Opl 245 restasse nelle mani di Etete – e dove lo stesso ex ministro risulta proprietario di immobili, pagati, secondo Global Witness e Finance Uncovered, forse proprio con i soldi della presunta maxi-tangente targata Eni e Shell.

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Lagos, Nigeria – Foto: @ Lorenzo Bagnoli

Eni Nigeria: al processo di Milano fasi confuse prima del verdetto

Il processo di Milano, nel frattempo, si sta avvicinando alla chiusura del primo grado di giudizio. Da quest’estate, però, è emerso il tentativo di boicottare la sentenza con dei dossier falsi e delle deposizioni costruite ad arte, tanto che la procura di Milano ha incardinato un secondo processo affidato ai pm Laura Pedio e Paolo Storari per quello che nelle cronache giornalistiche è stato soprannominato “il complotto”.

Imputato chiave è Piero Amara, ex consulente legale della multinazionale di San Donato Milanese, il quale sostiene di aver agito in accordo con Eni. Arrestato una prima volta nel 2018 nell’ambito di uno dei procedimenti collegati alla vicenda Eni-Nigeria, è finito in carcere di nuovo l’11 febbraio: su di lui pesano pene accumulate per 3 anni e 8 mesi di reclusione per corruzione in atti giudiziari (risultato di due patteggiamenti).

Il 29 gennaio i giudici della Settima Corte, chiamati ad emettere la sentenza sul processo Opl 245, avevano approvato l’acquisizione dei verbali dell’avvocato presi dal fascicolo d’indagine del complotto seguito dai pm Pedio e Storari. Gli stessi, il 5 febbraio, dopo una breve camera di consiglio, hanno però stabilito che Amara non parteciperà ad alcuna udienza, come invece richiesto dai pm De Pasquale e Spadaro.

Secondo la procura, Amara avrebbe dovuto fare luce su «una attività di grave e continua interferenza» tesa in particolare a manipolare le deposizioni di Vincenzo Armanna, imputato, ma al contempo grande accusatore dell’azienda, per renderle «a favore di Eni e in particolare dell’imputato Claudio Descalzi (attuale amministratore delegato e coimputato, ndr)».

I magistrati hanno anche aggiunto la pesante accusa di «interferenze delle difese di Eni e di taluni imputati nei confronti di magistrati milanesi con riferimento al processo Opl 245». Alla fine però il collegio giudicante ha ritenuto «non decisive» per il procedimento Opl 245 le deposizioni di Amara e dell’altro legale suo presunto complice, Leopoldo Marchese.

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Goodluck Jonathan – Foto: ©Annaliese McDonough/Commonwealth Sectratariat (via Flickr)

Eni Nigeria: i verbali di Amara nel caso aperto con l’ipotesi di corruzione

I verbali depositati contenenti le dichiarazioni di Amara sono pieno di omissis, ma in quel che si può leggere c’è già traccia di elementi che possono avere un certo interesse per il prosieguo del procedimento Opl 245. Il depistaggio che avrebbe architettato, dice l’avvocato Amara, sarebbe stato concordato con Claudio Granata, Chief Services & Stakeholder Relations Officer di Eni, ossia il capo delle relazioni con ong, politica e “parti interessate”. In sostanza, il numero tre dell’azienda petrolifera. Informato circa la gestione dei falsi dossier, secondo Amara e Armanna, sarebbe anche Michele Bianco, avvocato dello studio legale di Eni, sempre presente in aula.

Il nome di Bianco è stato accostato al complotto per la prima volta da Vincenzo Armanna durante l’udienza del 22 luglio 2019. In quell’occasione, Armanna aveva perlato di una serie di incontri tra il 2014 e il 2016 organizzati con Amara e Bianco. «Ma quando, scusami…», ha replicato Bianco in aula, con il presidente del collegio Marco Tremolada che è dovuto intervenire:

«Lei non è parte del processo, dovrebbe stare nel pubblico […] altrimenti sono costretto a farla allontanare dall’aula».

Amara nei verbali ha anche parlato del cosiddetto “patto della Rinascente”, ovvero un incontro avvenuto nei pressi del negozio in piazza Fiume a Roma nei primi mesi del 2016 in cui si sarebbe stabilito un piano per ammorbidire la versione di Armanna e «farlo rientrare all’ovile», ossia in Eni. Artefici della strategia sarebbero stati per Eni Claudio Granata e Michele Bianco, dall’altra sponda Amara e Armanna. I quattro avrebbero tenuto un dialogo costante via Wickr, una piattaforma di messaggistica criptata in cui i messaggi si autocancellano. «Bianco – si legge poi nei verbali di Amara – la definì Operazione Odessa».

A riprova delle sue parole, Amara allega un documento: la memoria con cui Armanna ritratta le sue posizioni, predisposta «su indicazione di Claudio Granata». Amara dice che il documento è datato «14 maggio 2016, 12.36 pm». Vincenzo Armanna in aula il 17 luglio ha detto di aver consegnato la memoria in procura a Milano il 26 maggio 2016.

L’intera vicenda del falso complotto, secondo Eni, è priva di ogni ogni logica e fondamento. Già a seguito delle udienze di Armanna, a luglio 2019, Claudio Granata ha querelato l’ex manager per diffamazione, mentre l’ex consulente legale Piero Amara e il suo collaboratore Giuseppe Calafiore sono stati denunciati per calunnia. In più, in un comunicato stampa del 17 luglio, quando per la prima volta è emersa la vicenda del depistaggio, l’Eni dichiara:

«In merito al cosiddetto presunto depistaggio, Eni si è dichiarata parte offesa già in data 9 maggio 2019. La compagnia perseguirà con vigore e in ogni sede opportuna la tutela della propria reputazione nei confronti di chiunque, sia che abbia già confessato un proprio coinvolgimento, sia che altrimenti risulti responsabile di eventuali condotte censurabili che si potranno evincere a esito dalla conclusione delle attività di indagine in corso o dagli accertamenti interni in itinere ed ha già da tempo agito ed operato conseguentemente (e continuerà a farlo) presso ogni opportuna sede».

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Foto: Luka Tomac/Friends of the Earth International (via Flickr)

La saga dei due Victor e il sospetto delle maxi tangenti per Opl 245

Il sospetto dei magistrati è che l’ultima manomissione delle testimonianze sia avvenuta durante la penultima udienza, il 29 gennaio. Una della più attese, in quanto ci sarebbe stata finalmente la deposizione di Isaac Eke, ex numero tre della polizia ad Abuja, uomo indicato dall’accusatore-imputato Vincenzo Armanna come persona in grado di riscontrare l’attendibilità dei 50 milioni di dollari in mazzette che sarebbero stati consegnati a casa del coimputato Roberto Casula, manager di Eni in Nigeria all’epoca dei fatti. Le famose “retrocessioni”, ossia parte delle mazzette restituite a manager dell’azienda di San Donato milanese, stando alle accuse di Armanna.

Isaac Eke era conosciuto da Armanna con lo pseudonimo di Victor Nwafor e a gennaio 2019 il Tribunale già aveva ascoltato il poliziotto nigeriano omonimo in udienza. Poi però Armanna aveva rivelato che la persona di sua conoscenza non era quella sentita in aula e così è cominciata la caccia al vero Victor, ovvero Isaac Eke.

In aula, però, le parole di Eke hanno smentito categoricamente i contenuti di una lettera firmata di suo pugno. Ha confessato infatti di averla siglata solo per fare un favore a un ufficiale della Marina nigeriana, amico di Armanna, ma di non avere idea dei contenuti. Risultato del caos di smentite è stata l’iscrizione di Eke al registro degli indagati la notte di mercoledì 29 gennaio per falsa testimonianza. Come riporta il Corriere della Sera, la stanza d’albergo dell’ex poliziotto è stata perquisita dalla procura.

Al netto di quanto sarà riscontrato sul piano giudiziario, lo spettro del complotto sta diventando sempre più un fattore in questa fase del dibattimento.

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