Malati di Alzheimer: senza strutture è emergenza per pazienti e famiglie
Poche migliaia di posti per oltre un milione di persone: i centri specializzati per malati di Alzheimer e altre demenze sono troppo pochi in Italia per una domanda enorme di aiuto. Con il risultato che pazienti e famiglie sono spesso abbandonati a se stessi in un momento di grande difficoltà
Un giorno dopo l’altro passato tra le mura di casa, emarginati e abbandonati: è quello che la vita dopo la diagnosi riserva spesso alle persone con malattie neurodegenerative senza servizi adeguati come centri diurni per l’Alzheimer e le altre demenze.
In Italia i centri diurni per le demenze sono pochi e diffusi a macchia di leopardo: su tutto il territorio i centri specializzati in demenze sono soltanto 141, per un totale di 2.511 posti (fonte Franco Pesaresi, “I centri diurni Alzheimer”, 2016), mentre secondo i dati forniti dal ministero della Salute i malati con demenza sono oltre un milione, un numero che sale a 3 milioni se consideriamo tutte le persone coinvolte in maniera diretta e indiretta, quindi anche le famiglie che si prendono cura di questi pazienti.
L’urgenza per i malati di Alzheimer, Parkinson e di altri tipo di malattie degenerative è anche di tipo sociale, perché in molti casi un aiuto specializzato è indispensabile per garantire le cure necessarie a condurre una vita dignitosa.
Nel 2014 è stato approvato un piano nazionale per le demenze che, se da un lato riconosce un sostegno socio-sanitario specifico dei malati di demenza, tra cui i centri diurni compaiono tra i servizi da garantire, dall’altro rimane quasi sempre sulla carta, affidato a regioni ed enti locali. Così si sono create situazioni paradossali: si passa da 23 centri in Toscana a zero in Calabria.
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Centri diurni per malati di Alzheimer: il caso della Calabria
La Calabria, per un certo verso, costituisce – e non è una contraddizione – un caso d’eccellenza grazie ai due centri diurni gestiti dall’Associazione Ra.Gi, rispettivamente nei comuni di Catanzaro e Cicala, come racconta la presidente Elena Sodano.
L’associazione Ra.Gi è nata senza finanziamenti pubblici e le risorse pubbliche concesse nel tempo sono di molto inferiori al necessario. Per questo l’attività dei due centri va avanti con le rette che i familiari pagano mensilmente e coi finanziamenti raccolti dall’associazione. La ricerca di sostentamenti economici è all’ordine del giorno, per esempio per pagare l’affitto molto alto dei locali di Catanzaro (mentre il comune di Cicala ha concesso in uso i locali del centro).
«Nonostante il piano nazionale disegni le strategie per promuovere una qualità della vita migliore dei malati di demenza siamo ancora sul piano della fantascienza», spiega Elena Sodano.
«Lo scopo dei centri diurni dovrebbe essere quello di umanizzare e normalizzare la vita dei pazienti, che senza un posto dove andare passano le giornate chiusi in casa, magari davanti alla Tv. Chiunque, escluso dalla società, finirebbe per trasformarsi in una tigre in gabbia».
Invece, quello che accade è che dopo la diagnosi e senza nessun luogo adeguato che li accolga, per i malati ci sono solo le famiglie, che, fino a quando la malattia è gestibile cercano di fare del loro meglio e poi non hanno altra scelta se non quella di chiedere un aumento delle cure farmacologiche, e può capitare che si arrivi all’uso improprio di psicofarmaci per la cura delle demenze.
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La “cura” e le strategie nel Piano nazionale demenze
Il Piano nazionale demenze – Strategie per la promozione ed il miglioramento della qualità e dell’appropriatezza degli interventi assistenziali nel settore delle demenze contiene indicazioni strategiche volte a promuovere e migliorare gli interventi nei confronti delle malati di demenza e delle loro famiglie, riferendosi ai percorsi terapeutici ma anche al sostegno delle persone.
Tra gli obiettivi del Piano, approvato nel 2014 e pubblicato in Gazzetta Ufficiale l’anno dopo (n.9 del 13 gennaio 2015), sono indicati interventi e misure di politica sanitaria e sociosanitaria per combattere lo stigma contro le demenze e supportare pazienti e familiari, la creazione di una rete integrata per prevenire le demenze, fornire diagnosi tempestive e avviare la presa in carico e strategie per l’appropriatezza delle cure.
Questi accordi sono sanciti dal piano tra il Governo e Regioni, province autonome ed enti locali e, in teoria, esiste un tavolo di monitoraggio dell’implementazione del Piano nazionale per le demenze (Pnd), coordinato dal ministero, che ha lo scopo realizzare azioni concrete in base agli obiettivi del Piano stesso.
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Oltre la ricerca: l’aspetto sanitario e quello sociale
«Siamo ancora fermi al lato teorico e burocratico della questione», spiega Sodano. «In Calabria, come nel resto d’Italia, si punta tutto sulla ricerca, che è ovviamente importante. Ma così si ignora l’aspetto organicistico delle demenze, come se l’aspetto sanitario e sociale non possano percorrere strade comuni. Il nostro paziente più giovane ha 40 anni, senza un luogo dove stare, adeguato alle sue esigenze: quale futuro lo aspetta?».
Dietro ai numeri e agli accordi ci sono le persone. «Tempo fa mi trovavo a Gioia Tauro e una persona mi ha raccontato di essersi licenziata per seguire la mamma malata. Recentemente mi ha chiamata una signora disperata da Vicenza, che ha la mamma malata che vive sola in Calabria con la badante e avrebbe passato le feste di Natale sola. Ma potrei fare un lungo elenco di familiari che vanno in burn out e cadono vittime di un corto circuito pratico ed emotivo, perché nessuno le ha informate sulla relazione di cura di queste malattie e perché vivono in prima persona la precarietà di un’assistenza insufficiente».
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Tra le storie di persone che grazie ai centri diurni per le demenze hanno visto la loro vita e quella del proprio caro malato migliorare c’è quella di Valentina, che quattro anni fa, quando la mamma si ammalò di demenza a 55 anni, era ventenne. «Da quando mia mamma si è ammalata gestisco io la casa, seguo la famiglia, lavoro e studio per diventare tecnico dell’educazione socio-educativo», racconta Valentina, che dopo qualche tempo dalla diagnosi della mamma, decise di portarla presso il centro dell’associazione Ra.Gi.
«La vita con lei era diventata ingestibile. Se uscivamo mi scappava continuamente e finivamo per restare in casa. Da quando è al centro mamma ha smesso di fumare, ma prima fumava fino a 2 pacchetti, semplicemente perché non si ricordava di avere appena spento la sigaretta. Al centro ho visto il cambiamento in pochi mesi, fa molte attività, ha una vita sociale accettabile e soprattutto gestiamo meglio la sua malattia. Da quando è al centro tutto è migliorato, riesco a farle la doccia e usciamo anche a fare compere insieme. Lei frequenta il centro tre giorni la settimana, paghiamo noi la retta, con la sua pensione, non è facile. Ma quando guardo mia mamma so che ne vale la pena. Tra le cose che non riusciva a fare, c’era anche dormire. Ora dorme tranquillamente e senza farmaci. Prendeva anche ansiolitici per gestire i momenti di rabbia, oggi prende soltanto un antidepressivo di cui però abbiamo dimezzato le dosi. Se non ci fosse stato il centro non avrei avuto nessuna scelta se non mandarla in una casa di cura o tenerla in casa», conclude Valentina.
Malati di Alzheimer in ospedale: superare lo stigma
«Le persone affette da demenze non sono riconosciute nemmeno da un punto di vista istituzionale», spiega Sodano. «Quando vanno al pronto soccorso, per esempio, non ci sono corsie preferenziali. Ma se già un marito non riconosce la propria moglie, un padre il proprio figlio, immaginiamoci la paura che possono avere in un luogo come quello del pronto soccorso circondati da estranei».
Spesso i malati di Alzeheimer e di altre demenze sono ricoverati nelle residenze sanitarie assistenziali (Rsa), dove però non esiste alcuna specializzazione né di personale né di attività per le loro particolari esigenze.
Centri assistenziali: serve specializzazione per vittime di demenza
«Nelle residenze sanitarie assistenziali ci si aspetta che le persone si adattino a condizioni di vita spaventose», incalza Elena Sodano. «Condizioni che anche le persone senza questo tipo di malattia troverebbero insopportabili. Non si può chiedere a loro di rispettare regole imposte completamente contrarie alle loro esigenze, bisogna riconoscere la loro libertà di esistere. Come dico quando vado in questo tipo di strutture come formatrice: i malati di demenze non sono solo cacca, pipì e pappa».
Ecco perché serve promuovere centri dove possono essere messi in campo progetti per favorire l’inclusione sociale delle persone con Alzheimer, Parkinson o con altre forme di patologie neurodegenerative. «Tra i tanti, abbiamo realizzato un progetto con la città di Catanzaro che ha permesso agli ospiti del centro di passeggiare riscoprendo gli antichi vicoli della città, andare al bar, in autobus, entrare in relazione con i commercianti, frequentare i luoghi di svago, vivere a contatto con la comunità di riferimento nonostante la malattia, superando lo stigma delle demenze», conclude Sodano.