Borderline, in un libro dieci anni di reportage dai confini del mondo
È da poco uscito in libreria "Borderline, storie dai confine del mondo" del nostro collaboratore Fabio Polese. Un testo che raccoglie dieci anni di reportage dai posti più remoti della Terra. L'autore ci porta all'interno di guerre sconosciute, campi profughi e situazioni al limite. Ma anche storie di coraggio e di popoli ancestrali
Tra le strade inesplorate della Thailandia a bordo di pick-up scassati o dentro a vecchie Mercedes con i miliziani palestinesi nel sud del Libano. Nella giungla della Birmania Orientale al seguito della guerriglia Karen, o con i ribelli musulmani nell’isola filippina di Mindanao. Nei sobborghi di Belfast insieme a ex combattenti dell’Ira tra pinte di Guinness e racconti pirotecnici. O nelle trincee in prima linea del Donbass, nella giornata di paga per i soldati filorussi, tra fiumi di vodka, maiale fritto e un diluvio di proiettili. Con una jihadista mancata nella Bruxelles capitale d’Europa. O con un missionario coraggioso che da quarant’anni convive tra il radicalismo e soldati corrotti.
Questi – e tanti altri – sono i reportage in cui il nostro collaboratore Fabio Polese ci fa immergere in Borderline. Storie dai confini del mondo (Eclettica Edizioni, 120 pagine), un libro appena uscito in libreria. Un volume senza retorica, autentico, che ci porta da vicino nei posti più remoti di questo pianeta.
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Pubblichiamo, in esclusiva, per gentile concessione della casa editrice, un estratto del capitolo «Figli della montagna».
Sono arrivato a Bangkok da qualche giorno. Sarei dovuto andare subito verso il confine, per entrare, ancora una volta, dentro la fitta vegetazione della giungla birmana al seguito della guerriglia Karen. Ma alcuni imprevisti ritardano la partenza.
Con me c’è Scott, un videomaker australiano che ho conosciuto anni prima proprio nello Stato Karen e con cui ho documentato anche le proteste che hanno portato all’ennesimo colpo di stato in Thailandia nel maggio del 2014.
Stiamo prendendo un caffè nella piscina del Miami, l’hotel più vecchio della capitale, famoso perchè ci soggiornavano i soldati yankee durante la guerra in Vietnam. È una bettola con i suoi asciugamani di color rosso scuro e la sua moquette sporca. Ma adoro questo posto e, ogni volta che sono nel «Paese dei sorrisi», alla fine, anche se mi prometto di non tornarci, finisco per ritrovarmici.
In diversi scambi di mail, Scott mi aveva parlato di un’etnia che dal Vietnam si era rifugiata vicino a Bangkok. Lui aveva i contatti e mi aveva più volte chiesto se potevo realizzarci un servizio. Mi sembrava l’occasione giusta. Così, dopo qualche chiamata, organizziamo e partiamo.
Dalle vie di Bangkok più frequentate dai turisti occidentali basta prendere un taxi. Appena quaranta minuti, se il traffico non è quello delle ore di punta, e ci si ritrova in un villaggio fantasma, fatto di baracche minuscole. Siamo nel distretto di Bang Yai, nella provincia di Nonthaburi, a nord della capitale della Thailandia. In questo angolo sperduto si è rifugiato parte di un popolo ancestrale in fuga, che ha lottato fino all’ultimo per difendere le proprie specificità dalle continue minacce, violenze, vessazioni del regime comunista di Hanoi.
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Si chiamano Montagnard, «Figli della Montagna». O Degar, nome che racchiude in sé la leggenda della loro nascita: i due antichi fondatori sembra fossero De, di origini mon-khmer, e Ga, di discendenza malese-polinesiana. Ma i vietnamiti preferiscono chiamarli con il termine dispregiativo di Moi, ovvero selvaggi. O con il più politicamente corretto Nguoi dan toc thieu so, che letteralmente significa primitivi. Gran parte di fede cristiana – dopo l’evangelizzazione condotta dai missionari nella metà dell’Ottocento –, sono uno dei popoli più antichi del Sud-est asiatico e risiedono nella penisola dell’Indocina da oltre duemila anni. Per molto tempo hanno vissuto in pace, coltivando e allevando bestiame, dividendo le risorse all’interno della comunità, rispettosi della proprietà e della libertà individuali, con una particolare attenzione per i più deboli e grande fedeltà alla tradizione culturale. Le loro terre, situate nelle alture del Vietnam centrale, venivano considerate pericolose perché infestate dagli spiriti e, per questo, quasi nessuno tentava di avvicinarsi.
Il tassista si ferma lungo una strada deserta. Intorno ci sono esclusivamente campi di riso. La stagione delle piogge è appena finita e il caldo mattutino soffoca il respiro. Ad spettarmi c’è solo Nhiang Sen. Ha appena trent’anni, ma il suo viso è scavato dalle ingiustizie subite. «Sono arrivato qua nel 2010», racconta mentre ci infiliamo in una via stretta che taglia la piantagione e porta diretti nel villaggio dove hanno trovato rifugio circa trecento Montagnard. «Non avrei mai voluto lasciare la mia terra, sono stato obbligato. Il governo vietnamita ci perseguita da decenni, le nostre case vengono confiscate, le chiese date alle fiamme e noi siamo continuamente arrestati e torturati». Anche lui ha passato tre anni della sua vita in carcere. «È stato orribile», dice senza aggiungere ulteriori dettagli. I particolari, però, me li dà il suo corpo. La pelle è ruvida, invecchiata come se avesse almeno venti anni in più. Gli occhi cupi come se non riuscisse a vedere i colori della vita.
I problemi dei Montagnard cominciano nel luglio del 1954, alla fine della guerra indocinese tra i colonizzatori francesi e i guerriglieri indipendentisti Viet Minh. I «Figli della Montagna», maltrattati sia dai comunisti di Hanoi che dai nazionalisti di Saigon, non vogliono stare né sotto il Vietnam del nord e neppure sotto a quello del Sud. Chiedono l’autonomia e la salvaguardia del loro territorio. Per questo fondano il movimento pacifico Bajaraka, successivamente diventato un vero e proprio gruppo armato sotto il nome di Furlo, il Fronte unito per la liberazione dei popoli oppressi, che nel 1992 ha definitivamente cessato le attività rivoluzionarie.
Ma la vera tragedia inizia nel 1975, con l’unificazione del Paese. Da quel giorno i Montagnard iniziano ad essere massacrati, sfruttati e privati di ogni diritto. Una storia molto simile a quella degli indiani in America o degli aborigeni in Australia. Basti pensare che durante l’occupazione francese, iniziata nel diciannovesimo secolo, erano un popolo di 3 milioni e mezzo di persone. Oggi i superstiti, quasi impossibile contarli con precisione, dovrebbero essere tra i 700 e gli 800 mila. Molti di loro hanno lasciato la terra degli avi.
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Occorre, però, fare un passo indietro. Quando gli Stati Uniti intervengono in Vietnam, i «Figli della Montagna» si schierano dalla loro parte. Vestono le divise degli americani e imbracciano il fucile d’assalto M16 contro quelli che per loro sono un nemico comune: i Vietcong. L’illusione è quella di una futura autonomia politica, sociale e culturale. «Sognavamo un futuro fatto di pace per la nostra gente», spiega Y Phi Kpnih, 69 anni, che ha servito l’esercito statunitense. «Ci avevano promesso tante cose che poi sono svanite nel nulla. L’unica cosa che mi ha lasciato la guerra combattuta per gli stranieri sono queste due cicatrici», dice mentre mi mostra le tracce indelebili nel suo corpo. Sono quattro fori, due d’entrata e due d’uscita. I segni di un proiettile che gli è penetrato nella spalla e quello che lo ha colpito appena sopra la caviglia…