Libertà religiosa negata ai detenuti non cattolici
Poter professare il proprio credo è garantito a tutti dalla legge, anche ai detenuti. In ogni istituto c'è una cappella, un prete e si celebrano i riti cattolici. Ma per chi segue altre confessioni è tutto più complicato. E spesso la libertà religiosa non viene garantita come dovrebbe
Per chi non è cattolico, pregare in prigione diventa un’impresa. Anche se dovrebbe essere un diritto garantito a tutti i detenuti. In particolare, una delle maggiori difficoltà è dovuta alla mancanza di spazi adeguati. Le visite fatte dall’associazione Antigone nel 2019, infatti, hanno rilevato che in 40 istituti non ci sono luoghi dedicati a culti non cattolici. E così si è costretti a utilizzare sale polivalenti allestite all’occorrenza per la preghiera.
«La mancanza degli spazi è un grosso problema e spesso, anche dove ci sono, il servizio non è garantito per mancanza di personale. In alcune carceri i musulmani fanno insieme la preghiera del venerdì, la più importante. In altre pregano a gruppi nelle sezioni. Ma in alcune hanno a disposizione solo la cella. Molto dipende dal direttore, la sua sensibilità è determinante», denuncia Yassine Lafram, presidente dell’Unione delle comunità islamica in Italia (Ucoii).
Nel 2015 l’Ucoii ha firmato un Protocollo di intesa con l’amministrazione penitenziaria che ha avviato una sperimentazione in otto carceri per favorire l’ingresso di imam o guide spirituali per i detenuti musulmani. «Noi già prima del 2015 eravamo presenti in alcuni istituti per garantire un diritto. Il Protocollo non ha fatto altro che riconoscere l’importanza del lavoro che già stavamo facendo, in modo volontario», spiega Lafram.
Oggi però si tende a parlare di islam e carcere soltanto in termini di radicalizzazione. «Si guarda ai detenuti di fede islamica solo in termini di prevenzione e spesso ci si dimentica di offrire un servizio che è garantito dalla Costituzione. Lo Stato dovrebbe intervenire in tutte le carceri per dare assistenza spirituale, ma in realtà oggi c’è un vuoto e, a volte, si scelgono imam fai da te tra i detenuti. Chi è in carcere può avere, in una certa misura, un risentimento verso le istituzioni o può ritenere ciò che vive un’ingiustizia. Quali valori può trasmettere una persona in quello stato mentale?», si domanda Lafram.
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Libertà religiosa in Italia, Costituzione italiana e il mancato accordo con le comunità islamiche
Il Protocollo con l’Ucoii è un segnale importante, ma non basta. «Serve il coinvolgimento delle comunità islamiche, un lavoro sistematico nelle carceri per dare assistenza spirituale, perché l’ascolto è di per sé prevenzione. E poi bisogna chiedersi se l’approccio securitario adottato verso i detenuti musulmani sta funzionando. Monitorare una persona significa farla sentire sotto accusa e questo alla lunga è rischioso: oltre a investire in sicurezza si dovrebbe investire nell’assistenza spirituale, perché una guida valida farebbe già una parte del lavoro di prevenzione», sostiene il presidente dell’Ucoii.
Un passo avanti potrebbe essere il riconoscimento delle comunità islamiche come ente religioso, così come previsto dall’articolo 8 della Costituzione. «Prima ci raccontavano che non era possibile per la mancanza di un unico interlocutore, ma per altri culti, come il buddismo, sono stati fatti accordi con più realtà. La verità è che manca la volontà di stipulare un accordo che, a cascata, potrebbe risolvere una serie di problemi», dice Lafram.
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Il tema della libertà religiosa nella legge penitenziaria
«Il carcere è una comunità che, tradizionalmente, attribuisce al tema della religione un ruolo rilevante e lo declina in maniera multiculturale. La religione è considerata uno strumento di emenda e lì più che altrove si dà rilievo all’appartenenza religiosa». A dirlo è Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio sul carcere dell’associazione Antigone. Che precisa: «Al di là della dimensione spirituale, il ministro di culto è una persona che parla con te e di questo c’è una grande domanda in carcere».
Il diritto a non essere discriminati per il proprio credo è previsto dall’articolo 1 dell’Ordinamento penitenziario, mentre la libertà di professare la propria fede e praticarne il culto è stabilita dal 26, in cui però già si fa una distinzione: la norma dice che nelle carceri è assicurata la celebrazione dei riti del culto cattolico (in tutte c’è una cappella) e che in ciascun istituto c’è almeno un prete, mentre gli appartenenti a religioni diverse da quella cattolica hanno diritto di ricevere, su loro richiesta, l’assistenza dei ministri del proprio culto e di celebrarne i riti. L’Ordinamento penitenziario è una legge del 1975, quando né la società italiana, né, di conseguenza, il carcere, potevano dirsi multiculturali.
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Cattolici, musulmani, ortodossi: le religioni presenti oggi nelle carceri italiane
I detenuti in Italia sono poco più di 61 mila, di cui circa un terzo stranieri. La maggior parte si dichiara cattolico, circa il 55%. I restanti sono divisi tra chi non dichiara la propria fede, poco più del 26%, e le altre confessioni: musulmani dichiarati (circa il 12%) e ortodossi (poco meno del 4%) in primis e, a seguire, pentecostali, avventisti del settimo giorno, testimoni di Geova, indù, buddisti e altri (dati del 15esimo Rapporto Antigone).
C’è chi lo dichiara all’ingresso e chi invece preferisce tenere per sé il proprio credo, chi non segue alcuna confessione e chi ne abbraccia una durante la detenzione. «Il carcere è un luogo che riunisce un gran numero di persone in un momento di difficoltà esistenziale catastrofica in cui ci si aggrappa a quel che si trova, anche alla religione», dice Scandurra.
Libertà religiosa negata: mancano ministri di culto non cattolici
I cappellani cattolici sono 314, ben più di uno per istituto (circa 190). Quelli di altre confessioni entrano secondo due modalità: se c’è un’intesa con lo Stato non servono particolari autorizzazioni, come per valdesi, avventisti, comunità ebraiche, ortodossi e buddisti; se l’intesa non c’è, come nel caso dell’islam, serve un nulla osta dell’Ufficio culti del ministero dell’Interno.
In totale sono circa 1.400 i ministri di altre confessioni che accedono al carcere, tra cui 47 imam e circa 500 testimoni di Geova (dati ministero della Giustizia). A questi si aggiungono gli assistenti volontari autorizzati dai provveditorati regionali – poco meno di 1.300 – e dai magistrati di sorveglianza, circa 15 mila (fonte: Relazione del ministero sull’amministrazione della giustizia 2018).
Ci sono però istituti in cui non entrano ministri di culto diversi da quello cattolico: 9 (circa il 14,3%) secondo quanto rilevato da Antigone nelle visite effettuate nel 2019. «Vero è che laddove c’è soltanto il prete cattolico a lui si rivolgono anche i detenuti di altre confessioni, perché è l’unica risposta a un bisogno di parlare molto forte. Altra cosa è la pratica religiosa, che richiede orari e spazi adeguati che, non sempre, l’organizzazione del carcere può mettere a disposizione», precisa Scandurra.
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L’esempio di Bologna
Nel carcere della Dozza di Bologna i detenuti musulmani riescono a fare insieme la preghiera del venerdì solo una volta al mese, nella sala cinema, mentre normalmente si fa in salette nelle sezioni o in cella. Nella sezione penale, però, lo spazio adibito a moschea è chiuso da oltre un anno.
«Nei limiti delle inadeguatezze strutturali e organizzative, l’amministrazione cerca di mettere le persone detenute nelle condizioni di professare il loro credo. Da un paio d’anni, inoltre, è possibile acquistare la carne halal nel sopravvitto e durante il ramadan si va incontro alle esigenze dei detenuti che vogliono seguire il digiuno consegnando loro cibi non cotti che possono essere consumati dopo il tramonto. Per quanto riguarda la pratica religiosa, però, non ci sono spazi dedicati come accade per i cattolici e per i musulmani la preghiera viene guidata da detenuti scelti dall’area trattamentale tra coloro che non hanno espresso posizioni radicali», spiega Antonio Ianniello, garante dei detenuti del Comune di Bologna.