Bolivia: dall’addio del presidente Morales già 27 i morti per le strade
Diritti umani violati in Bolivia, dove lo strapotere di militari e polizia ha portato ad abusi, feriti e morti. Lo denunciano Amnesty International e Human Rights Watch. Ma anche l'Alta commissaria per i Diritti Umani dell'Onu e la Corte interamericana per i diritti umani
Manifestanti feriti e uccisi, metodi repressivi da parte delle forze dell’ordine, giornalisti sottoposti a intimidazioni, diritti umani a rischio. È l’allarmante quadro delle proteste in Bolivia. Le dimostrazioni sono cominciate subito dopo le elezioni presidenziali dello scorso 20 ottobre, nelle quali gli osservatori dell’Organizzazione degli Stati americani (Osa) hanno registrato scorrettezze nelle procedure elettorali e nel conteggio dei voti. Il risultato elettorale aveva decretato una nuova vittoria per Evo Morales, leader al potere ininterrottamente dal 2006, in corsa per un fortemente contestato quarto mandato.
Il 10 novembre il presidente in carica, il primo capo di Stato indigeno e leader dei cocaleros (coltivatori di coca) nella storia del Paese, dopo aver proclamato una nuova tornata elettorale e la nomina di un nuovo Tribunale supremo elettorale, ha dovuto dare le dimissioni, a seguito dell’esplicita richiesta del comandante delle forze armate, e si è autoesiliato in Messico. Oltre a lui, si sono dimessi anche il suo vice e i presidenti di Camera e Senato.
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Bolivia: una proposta di legge per il dopo Morales
Da quel momento, le strade delle città boliviane sono diventate teatro di scontri violenti fra i sostenitori di Morales, che gridano al colpo di Stato nel Paese, da un lato, e polizia ed esercito dall’altro.
L’11 novembre la senatrice di opposizione e avvocata Jeanine Áñez, seconda vicepresidente del Senato, si è dichiarata disposta ad assumere l’incarico di capo di Stato ad interim: in pratica un’autoproclamazione, sulla base di una disposizione della Costituzione boliviana secondo cui, in casi di urgenza nazionale, la presidenza viene assunta in modo immediato, senza bisogno di aspettare il voto del Parlamento. La Áñez ha presentato una proposta di legge per indire nuove elezioni e nominare un nuovo Tribunale elettorale. Ha inoltre rifiutato la proposta di concedere l’amnistia a Evo Morales, che è stato accusato di sedizione e terrorismo.
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Potere all’esercito nel decreto del nuovo presidente della Bolivia
Ma a suscitare la forte preoccupazione delle organizzazioni internazionali è, in particolare, il decreto presidenziale adottato il 15 novembre che impiega l’esercito nelle azioni volte «al ristabilimento dell’ordine interno e della stabilità pubblica», a sostegno della Polizia nazionale, e concede alle forze armate un potere eccessivamente ampio e discrezionale esentando i militari dalla responsabilità penale quando agiscono «in caso di legittima difesa o in stato di necessità» e se rispettano «i principi di legalità, assoluta necessità e proporzionalità» come definiti dalla legge boliviana.
Il timore è che si tratti di una misura volta a soffocare i movimenti di protesta, a reprimere il dissenso e, in particolare, a colpire le comunità indigene, i campesinos e i cocaleros che tradizionalmente sostengono Evo Morales.
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Rischio impunità per le forze armate: l’allarme delle Ong
A denunciare il rischio di violazione dei diritti umani sono, fra gli altri, Amnesty International e Human Rights Watch. In un comunicato ufficiale, Amnesty sollecita «le autorità boliviane ad abrogare immediatamente il decreto 4078 del 14 novembre 2019, a garantire che le forze armate agiscano nel rispetto delle norme e degli standard internazionali sull’uso della forza e a proteggere i diritti umani di tutte le persone che intendono protestare, a prescindere dalla loro opinione politica».
«La grave crisi dei diritti umani che sta attraversando la Bolivia dopo le elezioni del 20 ottobre si è aggravata con l’intervento delle forze armate. Qualsiasi messaggio che favorisca l’impunità è gravissimo. I nefasti precedenti storici nella regione per quanto riguarda il ruolo dei militari devono essere tenuti nella massima considerazione così come massimo dev’essere l’impegno al rispetto e alla protezione dei diritti umani», è la dichiarazione di Erika Guevara-Rosas, direttrice per le Americhe di Amnesty International.
«Siamo estremamente preoccupati per le misure adottate dalle autorità boliviane che sembrano dare priorità alla repressione brutale di oppositori e critici del nuovo governo e dare alle forze armate carta bianca per commettere abusi invece di lavorare per ripristinare lo stato di diritto nel Paese», ha dichiarato Miguel Vivanco, direttore per le Americhe di Human Rights Watch (Hrw). «La priorità dovrebbe essere assicurare che i diritti fondamemtali del boliviani, inclusi quelli alla protesta pacifica e ad altre assemblee pacifiche, siano rispettati».
Uso delle armi da fuoco nelle proteste: la denuncia di Human Rights Watch
Il decreto stabilisce che le forze armate possano «fare uso di tutto i mezzi disponibili che siano proporzionali al rischio degli operativi», vale a dire, anche delle armi da fuoco. Secondo Hrw, il decreto va contro i Principi fondamentali delle Nazioni Unite sull’uso della forza e delle armi da fuoco da parte di agenti e funzionari delle forze dell’ordine, standard internazionali che forniscono una serie di linee guida sul comportamento e le azioni degli agenti della sicurezza.
Il decreto, si legge nel comunicato di Hrw, «non distingue tra l’uso delle armi da fuoco e il loro uso deliberatamente letale», vale a dire, «la distinzione tra sparare e sparare con l’intenzione di uccidere». L’organizzazione spiega infatti che ricorrere alle armi da fuoco dovrebbe essere davvero un caso estremo, quando le azioni non letali siano state attuate in tutti i modi possibili. Il mantenimento dell’ordine dovrebbe essere perseguito con il minimo danno, rispettando sempre e comunque le vite umane.
Scontri in Bolivia: una storia di massacri indigeni
Circa una settimana fa la Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) aveva denunciato 23 morti negli scontri dopo le elezioni del 20 ottobre e di oltre 700 feriti. Ma i dati sono in continuo divenire e, al momento in cui scriviamo, il bilancio è aumentato ad almeno 27 vittime.
L’episodio più sanguinoso è avvenuto il 15 novembre a Sacaba, nella provincia di Chapare a 13 chilometri da Cochabamba – roccaforte dei sostenitori di Morales – dove negli scontri tra agenti di polizia e manifestanti, in gran parte indigeni e cocaleros, almeno otto persone – nove secondo la Commissione interamericana dei diritti umani – sono rimaste uccise e, sempre secondo la Cidh, più di 120 ferite.
La difficile situazione della Bolivia è seguita con apprensione anche dall’Alta commissaria delle Nazioni unite per i diritti umani Michelle Bachelet che, il 16 novembre, ha dichiarato che le morti avvenute nelle proteste «sembrano essere il risultato di un uso non necessario e sproporzionato della forza da parte della polizia e dell’esercito».
Minacciato chi lavora con le news in Bolivia
Le organizzazioni umanitarie lanciano l’allarme anche per le intimidazioni nei confronti dei giornalisti e dei mezzi di comunicazione. Come sottolinea Human Rights Watch, il governo boliviano ha affermato di perseguire e arrestare coloro che si macchiano di «sedizione», un reato che comporta fino a tre anni di detenzione.
Il ministro delle Comunicazioni Roxana Lizárraga ha dichiarato che le autorità «prenderanno provvedimenti pertinenti», inclusa la «deportazione», contro i giornalisti che «commettono sedizione». Un chiaro tentativo di soffocare la libertà di opinione e di espressione.
La Commissione interamericana dei diritti umani il 19 novembre ha affermato di essere preoccupata per la «situazione di restrizioni al lavoro dei giornalisti e dei mezzi di comunicazione», che ha colpito «il diritto della cittadinanza all’accesso all’informazione, in particolare sui recenti episodi di uso eccessivo della forza».
Indigeni vittime di odio razziale e i loro simboli
La Commissione, inoltre, «manifesta la sua preoccupazione di fronte a discorsi di odio razziale rivolti ai popoli indigeni del Paese e ai loro simboli». Un riferimento in particolare alle esternazioni della presidente ad interim Áñez: ha sollevato molte proteste un suo tweet, ripreso e ritwittato nei giorni scorsi, in cui la senatrice si esprime con toni razzisti e offensivi nei confronti degli indigeni, affermando:
«Sogno una Bolivia libera dai riti satanici indigeni, la città non è per gli indios, che se ne vadano all’altopiano o nel territorio del Chaco», riferendosi alle tradizioni indigene e al loro culto della Pachamama, la Madre Terra in lingua quechua.
Parole di discriminazione nel Paese dell’America Latina che conta la percentuale più elevata di indigeni (circa il 50% dell’intera popolazione, fino al 70% in alcune regioni) e che dal 2009 ha una Costituzione che riconosce la Bolivia come Stato plurinazionale, garante della presenza delle popolazioni native originarie – quaranta etnie – e della difesa della loro storia, della loro cultura e della loro identità.
dietro tutto questo c’è la mano degli Stati Uniti e delle multinazionali.