Transgender: in Italia la battaglia per i diritti delle persone trans è in salita

«Siamo un business, ma non ci vengono riconosciuti i diritti»: le persone transgender chiedono di rivedere la legge in materia e prevedere una procedura amministrativa per la transizione. Oggi sono costrette a subire perizie psicologiche e a rivolgersi al tribunale per poter vivere la propria vita. Spesso senza il riconoscimento di diritti fondamentali

«Oggi mi è arrivata la notizia che l’udienza per il cambio anagrafico è stata rinviata all’8 luglio del prossimo anno. È il secondo rinvio che subisco, il primo perché il giudice in 8 mesi non aveva avuto tempo di leggere 10 paginette che spiegavano la mia situazione. Evidentemente 5 mesi in più non sono bastati. Questo procedimento l’ho cominciato un anno e mezzo fa, quindi per quando avrò la sentenza in mano e i documenti rettificati saranno passati 3 anni e si spera che non siano pure di più».

Inizia così il post che, lo scorso 23 ottobre, Marta Ciaccasassi ha pubblicato su Facebook: «Da tre anni vengo costantemente fermata, come se ogni tot metri ci fosse un cancello oltre il quale devo farmi riconoscere, perché si sa, essere trans è pericoloso». E poco importa se nel frattempo lei lavora, esce, viaggia, vota, vive con un documento su cui è riportato un nome diverso da quello con cui è conosciuta. E subisce il disagio di essere chiamata al maschile quando ormai si presenta socialmente in un altro modo (leggi i nostri articoli sulla discriminazione delle persone Lgbt).

«Alle ultime elezioni, al seggio ho dato il mio documento e non capivano cosa stava succedendo. Ho dovuto spiegare che dovevano guardare nell’altro registro, quello degli uomini, ma poi hanno consegnato la scheda all’amico che mi accompagnava. Alla fine ho votato, ma sono stata costretta a fare un coming out pubblico», racconta a Osservatorio Diritti.

Quella che sta vivendo Marta è una situazione comune a tantissime persone che hanno fatto o stanno facendo un percorso di transizione da un genere a un altro. «Io posso dire di essere fortunata. Conosco un ragazzo di 30 anni che ne ha aspettati 7 per avere i documenti corretti, un quarto di vita in attesa di vivere».

Ecco perché le associazioni che tutelano le persone trans chiedono di modificare la legge 164/1982 che disciplina la rettificazione di sesso” e auspicano che il percorso diventi una procedura amministrativa. «La 164 è una legge ottima, ma ha fatto il suo tempo, è superata», continua Marta, che è responsabile del gruppo T dell’associazione Omphalos di Perugia.

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Foto: Ted Eytan (via Flickr)

Transgender in Italia: legge sulla “rettificazione di sesso” e la sentenza della Cassazione

In Italia la “rettificazione del sesso” è disciplinata dalla legge 164 del 1982. «Una norma obsoleta e ambigua perché si presta a diverse interpretazioni», dice Christian Leonardo Cristalli, cofondatore dell’associazione Gruppo Trans di Bologna. In totale è composta da 7 articoli: il primo stabilisce che la rettificazione del sesso si fa «in forza di una sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca a una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali»; il secondo prevede che, «quando è necessario, il giudice dispone con ordinanza l’acquisizione di consulenza intesa ad accertare le condizioni psico-sessuali dell’interessato».

Il problema è che, afferma Cristalli, «non spiega che tipo di consulenza vada acquisita e nemmeno che cosa significhi “quando è necessario”, lasciando all’interpretazione dei giudici». Fino a qualche anno fa, i giudici interpretavano questa legge in un solo modo: per richiedere la rettificazione del sesso, e quindi quella anagrafica, era necessario l’intervento chirurgico ai genitali.

Nel 2015 due sentenze sono intervenute sulla materia: la prima della Corte di Cassazione, poi seguita da una pronuncia della Corte Costituzionale. Quest’ultima ha chiarito che «la legge esclude la necessità, ai fini dell’accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico, il quale costituisce solo una delle possibili tecniche per realizzare l’adeguamento dei caratteri sessuali». Prima di quella data le persone trans erano obbligate all’intervento. Da quel momento in poi, invece, non è stato più un passaggio necessario.

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Significato di transgender: i percorsi di transizione

Non esiste un solo percorso di transizione uguale per tutte le persone. «Vedere il percorso di transizione come una struttura monolitica non ci rende la vita facile e ci incatena a quei protocolli patologici e rigidi che siamo costretti ad affrontare», spiega Ciaccasassi.

Ad esempio, un percorso di transizione medicalizzato può prevedere vari interventi chirurgici, una consulenza psichiatrica/psicologica, test di vita reale, terapie ormonali sostitutive. Il percorso giuridico invece può prevedere la rettifica anagrafica e/o l’autorizzazione agli interventi demolitivi. «Ogni persona trans ha esigenze specifiche e diverse: c’è chi sceglie di non assumere ormoni e anche chi non vuole accedere a un percorso medico ma vorrebbe solo la rettifica amministrativa, che in Italia non è possibile. Ma per l’attuale normativa, per i giudici e il servizio sanitario noi dobbiamo il più possibile standardizzarci a un modello preimpostato, canonico, stereotipato, che spesso ci costringe o a mentire o ad allungamenti infiniti del proprio percorso, o addirittura a veri e propri rifiuti, respinte o negazioni», commenta Ciaccasassi.

Oggi in Italia il percorso di transizione è lungo e costoso. «Il Protocollo Onig (Osservatorio nazionale identità di genere) applicato in Italia prevede 4-6 mesi di percorso psicologico e altri 8-12 mesi di test di vita reale. Il test serve per valutare la capacità di vivere nella società con il genere che si è scelto ma, in pratica, valuta la capacità di rappresentare lo stereotipo di quel genere. Rivelare di non essere eterosessuale o di non avere il supporto della famiglia può costituire un problema», dice Cristalli.

Sotto il profilo economico, le perizie psicologiche ed endocrinologiche hanno un costo («circa 500 euro l’una»), così come le sedute dallo psicologo e le terapie ormonali. E poi c’è l’avvocato e, a volte, il consulente tecnico d’ufficio assegnato dal giudice, «che deve valutare se siamo davvero persone trans e verificare il percorso, ma che dobbiamo pagare noi e può costare anche 2 mila euro. Vorremmo arrivare al punto in cui una persona possa autodeterminarsi senza passare da un percorso medico, psicologico, giuridico e senza essere continuamente sottoposti a controlli per essere sicuri che stiamo facendo la scelta giusta. Alle persone non trans non viene chiesto», afferma Ciaccasassi.

A differenza di altri Paesi dove la rettifica del documento è il primo passo, in Italia è l’ultimo. «Il cambio anagrafico consente di sostenere la persona a livello sociale, ma nel nostro Paese arriva dopo un percorso lungo e faticoso, durante il quale la persona sta già assumendo ormoni e si presenta socialmente in modo diverso», spiega Cristalli.

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Transgender “invisibili” e il problema dei farmaci

«Farmaci salvavita». Christian Leonardo Cristalli usa queste parole per definire le terapie ormonali che le persone trans devono seguire per tutta la vita. «Ma non sono riconosciuti come tali», spiega. Si tratta infatti di farmaci prescritti per patologie come l’ipogonadismo (l’insufficiente produzione di testosterone) o la menopausa, dei quali spesso non si conoscono gli effetti a lungo termine sulla salute e che in molte regioni sono a pagamento. «Io stesso assumo da 12 anni un farmaco per l’ipogonadismo, ma è evidente che non sono un maschio ipogonadico, anche se il mio medico è costretto a scriverlo sulla prescrizione», spiega Cristalli.

Recentemente un farmaco assunto dalle ragazze trans è stato al centro di un’inchiesta perché si è scoperto che dopo 10 anni favoriva lo sviluppo di meningiomi, «ma è l’unico a cui molte persone possono accedere perché è il meno costoso. In un altro caso, un farmaco è stato declassato in fascia C e il suo prezzo è aumentato da 4 euro a scatola a 10 euro. Ne servono 1-2 scatole al mese e il costo è quasi triplicato», dice Ciaccasassi.

Nei mesi scorsi diverse associazioni, tra cui Gruppo Trans Bologna e Omphalos (che ha anche consegnato una lettera al ministro della Salute, Roberto Speranza, con una serie di istanze), hanno sollevato la questione  dell’irreperibilità delle terapie a base di testosterone nelle farmacie italiane. Sul tema è stata lanciata anche una petizione online ed è stata presentata un’interrogazione parlamentare.

«Sono farmaci di fascia C, non necessari, e le case farmaceutiche possono permettersi di sospenderne la produzione. Ma io, come molte persone, non posso permettermi di rimanere senza. Gli effetti a livello fisico e psicologico sono molto gravi».

E il ricorso a farmaci alternativi non sempre è possibile. «Non tutte le persone rispondono allo stesso modo alle stesse terapie: per alcune può andare bene la pillola, per altre il gel», spiega Ciaccasassi. Altro problema, il fatto che certi farmaci possono essere prescritti solo a uomini o solo a donne. «Ma mentre la terapia ormonale va iniziata subito, i documenti vengono rettificati solo alla fine del percorso. Perciò finché sul documento non c’è la M non si può avere un farmaco a base di testosterone e viceversa se non c’è la F non ti prescriveranno gli estrogeni», spiega Cristalli.

Il cambio del documento rende le persone trans non più intercettabili: un bene per la privacy, non altrettanto per l’accesso a esami o screening come il pap test o quello per il tumore alla prostata. «La verità è che siamo un business ma non ci vengono riconosciuti i diritti. Non abbiamo accesso al servizio sanitario a livello territoriale, ma dobbiamo rivolgerci ai 5 o 6 centri a livello nazionale. Ad esempio, in Emilia-Romagna, le persone vengono inviate a Bologna, mentre dovrebbe esserci la possibilità di accedere al servizio senza essere costretti a trasferirsi», conclude Cristalli.

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