Rifugiati siriani: Turchia travolta dallo scandalo dei rimpatri forzati
Catturati, trattenuti e deportati in Siria contro la propria volontà. Potrebbero essere centinaia i rifugiati siriani costretti a lasciare la Turchia negli ultimi mesi del 2019. Ankara li chiama “rimpatri volontari”, per Amnesty International si tratta di deportazioni coatte
«Mi sentivo come se stessi tra il paradiso e l’inferno. A quel punto l’unica cosa che volevo era che quel viaggio finisse il prima possibile. Mi bastava arrivare da qualche parte. Immagina di passare 26 ore su un autobus, con un bicchiere d’acqua e mezzo panino. E ogni due ore i poliziotti che vengono a colpirti per tenerti sveglio».
Farid ha 40 anni (il nome è di fantasia, la sua storia no). È padre di otto figli. La guerra scoppiata in Siria nel 2011 lo ha costretto a lasciare la propria casa ad Aleppo. A Istanbul aveva trovato un’occupazione che gli permetteva di mantenere la sua famiglia. Il 3 luglio 2019, proprio mentre stava tornando dal lavoro, è stato fermato da un agente di polizia turco che gli ha chiesto il suo documento di identificazione. Lui glielo ha mostrato, ma essendo stato registrato nella provincia sudorientale di Şanlıurfa è stato arrestato e portato in un centro di detenzione nel distretto di Pendik, a sud di Istanbul.
Deportazioni coatte: rifugiati siriani costretti a firmare
Dopo una settimana è stato trasferito in un altro centro, a Edirne, città al confine con la Grecia. È lì che è stato costretto a firmare un foglio. L’interprete dell’immigrazione gli aveva detto che si trattava della ricevuta per aver chiesto una coperta. Ma poi ha capito che quello era il documento che attestava la sua “autonoma” decisione di rimpatrio volontario in Siria.
Dopo non molto tempo, infatti, lo hanno caricato su un autobus con altre 32 persone. E dopo 26 ore di viaggio si è ritrovato a Bab Al Hawa, il valico di frontiera tra la Turchia e Idlib, l’ultima provincia siriana ancora nelle mani dei ribelli – quindi nel mirino di Assad – e controllata da gruppi radicali e jihadisti. Dopo un po’ di tempo lo hanno raggiunto la moglie e tre dei suoi figli. L’alternativa per loro sarebbe stata vivere per strada a Istanbul.
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Rimpatri forzati in Siria: la Turchia vìola i diritti umani
Ankara li chiama “rimpatri volontari”, per Amnesty International si tratta di “deportazioni coatte”.
Secondo l’ong, da luglio di quest’anno è probabile che siano stati centinaia i rifugiati siriani «catturati, detenuti e trasportati contro la loro volontà in uno dei paesi più pericolosi al mondo. Molte persone sono state prese a Istanbul, arrestate mentre erano al lavoro o camminavano per strada», proprio com’è successo a Farid.
Nel rapporto pubblicato a ottobre, Amnesty ha documentato 20 casi dettagliati di rimpatri forzati avvenuti tra il 25 maggio e il 13 settembre 2019. «Nelle condizioni attuali, è una violazione del diritto internazionale costringere chiunque a tornare in Siria. Il “principio di non respingimento” – sancito da numerosi trattati, tra cui la convenzione di Ginevra del 1951 e quella contro la tortura del 1984, nonché da una legge turca, la n° 6458 del 2013 – che vieta agli stati di inviare chiunque in un luogo dove sarebbe esposto a un rischio reale di gravi violazioni dei diritti umani». La Siria è uno di questi.
Rifugiati siriani, quanti ce ne sono in Turchia
Secondo le stime dell’Unhcr, ad oggi la Turchia ospita 4 milioni tra rifugiati e richiedenti asilo, di cui 3,6 milioni sono siriani. Di questi, solo l’1% è stato ricollocato in un paese dell’Unione europea.
Il governo di Ankara sostiene di aver speso – dal 2011 ad oggi – circa 36 miliardi di euro per la gestione della crisi migratoria innescata dalla guerra civile siriana. Nel 2016 l’Ue aveva ufficialmente affidato a Erdogan il compito di contenimento dei flussi verso l’Europa a fronte di uno stanziamento di 6 miliardi di euro. A settembre del 2019 nelle casse del governo turco ne erano entrati 2,57 miliardi. Il 3 novembre ne sono stati versati altri 663 milioni.
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Quando e perché la Turchia ha iniziato a rimpatriare i migranti siriani
La Turchia aveva iniziato a espellere in Siria i migranti già prima del 2019, ma gli sviluppi interni sembrano aver dato un ulteriore impulso a questa «pratica illegale». Tra il 2018 e il 2019 l’economia turca ha iniziato a vacillare e il costo della vita è aumentato.
Con questo anche le critiche verso le politiche a sostegno dei rifugiati siriani. A marzo e giugno di quest’anno, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) – quello di Erdogan – ha perso le elezioni amministrative sia nella capitale, Ankara, sia a Istanbul, la più grande città del paese. E così, da metà 2019, l’approccio delle autorità turche nei confronti dei rifugiati ha subìto un aspro cambiamento, in particolare proprio a Istanbul. L’ufficio del governatore ha fatto diversi annunci, a luglio e ad agosto 2019, chiedendo a tutti i siriani non registrati in città di tornare nella loro provincia designata o, se non registrati, di recarsi in un’altra provincia per registrarsi. Ai rifugiati è stato dato tempo fino al 30 ottobre 2019 per seguire questa direttiva.
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Creare una “zona sicura”, il vero piano di Erdogan
Le deportazioni coatte possono essere comprese nel contesto del più ampio progetto del presidente Recep Tayyip Erdogan, quello di istituire una cosiddetta “zona sicura” al confine con la Siria, dove trasferire i profughi siriani attualmente residenti in Turchia.
Anche per questo, il 9 ottobre scorso è scatta l’operazione militare “Fonte di pace”, che in due settimane ha provocato centinaia di vittime e 160 mila sfollati.
L’aggressione ai danni della popolazione curda del Rojava è solo uno dei passi del vero piano del sultano. Contro i governi europei che avevano criticato quella che è stata – a tutti gli effetti – un’invasione, Erdogan aveva usato l’arma del ricatto, minacciando di «aprire le porte» e far entrare in Europa gli oltre tre milioni e mezzo di profughi siriani. La crisi negli hotspot sulle isole greche, resa evidente dal picco di arrivi degli ultimi mesi, è stato solo un assaggio.
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Futuro più incerto per i profughi siriani con la safe zone
Il 30 ottobre è passato, ma nel frattempo l’operazione lampo delle forze militari turche nel nord della Siria ha prodotto gli effetti desiderati dal sultano: il 22 ottobre, a Sochi, Erdogan ha firmato con il presidente russo Vladimir Putin un accordo che prevede la creazione di una “zona cuscinetto”, compresa tra le città di Tel Abyad (ovest) e Ras Al Ayn (est), lunga 120 km e che entra in territorio siriano per 30 km. Questo è stato sottratto alle milizie curde dell’Ypg con l’offensiva “Fonte di pace”.
La Turchia manterrà il controllo di questa area, mentre ai militari russi è affidato il compito di supervisionare l’effettivo abbandono della zona da parte dell’Ypg. La safe zone è dunque diventata realtà. Ma quanto possa essere “sicura” una zona di fatto militarizzata è ancora tutto da provare, come dimostrano le ultime notizie di cronaca: proprio a Tel Abyad, sabato scorso hanno perso la vita almeno 13 persone dopo l’esplosione di un’autobomba in un mercato molto frequentato. L’attentato è avvenuto dopo due settimane di relativa calma nella Siria nord-orientale e un giorno dopo l’inizio del pattugliamento congiunto di truppe turche e russe nel cosiddetto “cuscinetto di sicurezza”.