“Dalla guerra”, cronache di ordinaria oppressione dall’Africa al Medio Oriente

Luca Pistone, giornalista, fotografo e videomaker frelance firma il libro “Dalla guerra. Cronache di ordinaria oppressione”, edito da Aut Aut Edizioni. Un testo che ci porta tra le violenze e le oppressioni presenti in dieci paesi nel mondo, dall'Africa al Medio Oriente alla Cambogia

Un titolo didascalico, perché quando si parla di guerra e oppressione il racconto è già lì che ci raggiunge. Uno stile a tratti duro, ma squisitamente narrativo. Luca Salvatore Pistone è un giornalista, fotografo e videomaker freelance, che con la sua professione, negli ultimi dieci anni, è arrivato in zone di guerra e di crisi, dall’Africa al Sud Est Asiatico, passando per il Medio Oriente.

E dieci sono i reportage contenuti in “Dalla guerra. Cronache di ordinaria oppressione”, edito da Aut Aut Edizioni, casa editrice indipendente nata solo tre anni fa, che con la sua collana “Le colline a sud di Hebron” dà spazio a inchieste e reportage, spesso – come nel caso di Pistone – a «storie che non fanno notizia – dicono presentando il libro – una necessaria testimonianza di ordinarie oppressioni».

“Dalla guerra. Cronache di ordinaria oppressione”: dieci anni di giornalismo in zone di conflitto

Luca Pistone sa far entrare dentro l’atrocità della guerra. Lo fa senza mai essere lezioso, per quanto lo stile del suo dire sia propriamente narrativo, non di cronaca sterile. Lo si capisce subito, dall’introduzione, dove Pistone fa conoscere suo nonno Virgilio, «fascista», che «nacque e crebbe in una famiglia fascista», il quale nel suo diario – il primo maggio del 1945 – diceva: «Che tragedia! Di chi la colpa di tanti scempi, di tanti dolori? I colpevoli pagheranno mai abbastanza?».

Nonno Virgilio non fu mai in grado – rivela Pistone – di darsi una risposta esaustiva. Pistone sta cercando quella risposta ancora oggi, da dieci anni, da quando ha deciso di diventare un giornalista in zone di guerra e crisi.

La sua palestra è stato il diario di nonno Virgilio. Il risultato sono le testimonianze contenute nelle 224 pagine del libro. Si parte con la Libia, nel 2012, per arrivare alla Giamaica nel 2019. In mezzo le guerre e le violenze nei paesi africani.

Dal 2012 al 2019, un racconto di storie di ordinaria oppressione

I racconti di Pistone sono duri, spietati per definizione, se si considera lo scenario, l’ambiente in cui l’autore-testimone si è trovato a raccontare. Come quando in Libia (siamo nel 2012) racconta dei video che gli sono stati mostrati, dove si vedono ragazzi – nemici di Gheddafi – giustiziati:

«Un miliziano gli urla contro: “Topi!”, come Gheddafi chiamava i suoi nemici e, a uno a uno, gli spara in fronte con una pistola a tamburo».

E ancora: ragazzine violentate di fronte alle risate e pacche sulle spalle dei propri aggressori, o una donna letteralmente tagliata a pezzetti, prima di morire dissanguata.

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A Bird Dufan, in Tripolitania, un gruppo di miliziani di Misurata si prepara a un’offensiva contro Bani Waled (Ph. Luca Salvatore Pistone)

Ma Luca Pistone ha saputo restituire l’oscenità di quell’ambiente con uno stile che rasenta a tratti la poetica, quella cruda, fatta esattamente delle parole che ci si aspetta, dirette, angoscianti, come quando – qui siamo invece nell’Ucraina del 2015 – si parla delle risate di Roman che «coprono il rombo del motore, ma non quello dei bombardamenti. Siamo all’aperto e l’Esercito ucraino non fa economia coi colpi di mortaio».

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Poi ci sono i macro dettagli di dimensioni che esulano dalla situazione politica, ma che fanno rendere conto della situazione in cui versano gli “ospiti” dei campi profughi, come quelli nel Niger del gruppo terroristico Boko Haram (il racconto di Pistone risale al 2015), che ha l’obiettivo di creare uno stato islamico retto dalla Sharia. In questo contesto, per capire se ci siano membri di Boko Haram, lo psicologo osserva i ragazzi giocare a calcio, perché è lì che i caratteri più violenti vengono fuori e una volta individuati viene chiesto loro di cambiare atteggiamento.

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Un soldato dell’Esercito nigerino in pattuglia al mercato di Diffa (Ph. Luca Salvatore Pistone)

Nel 2016, invece, Pistone porta il lettore a Mosul, in Iraq, dove la «puzza di morte non se ne va mai», dove uomini e donne raccontano il martirio dell’occupazione, dove anche una barba mai tagliata è la testimonianza della «sofferenza subita dal popolo».

L’anno dopo, nel 2017, è in Gambia e nella dittatura e repressione dell’ex presidente Yahya Jammeh. Un viaggio in vespa che Pistone, con il suo collega e amico Andrea De Giorgio, ha percorso tra il Mali, Senegal, Guinea Bissau e Gambia.

Approdati nella terra africana, Pistone conduce il lettore subito all’interno del male più grande di cui è intrisa l’Africa, la corruzione, quando racconta della donation richiesta per avere il visto diplomatico. E la censura, subita da giornalisti, spesso imprigionati o costretti all’autocensura per evitare guai.

La bravura di un giornalista, specie se del genere di Pistone, che calpesta la terra del reportage giornalistico, è sondare terreni che altri hanno meno battuto. Come ha fatto nel 2017 con la Cambogia. All’iper-raccontato Vietnam, Pistone sceglie di andare in Cambogia, dove gli effetti della guerra sono oltre modo presenti e più che visibili.

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Sorm ha 14 anni e pesa 9 chilogrammi. La sua condizione è una conseguenza dell’utilizzo di armi chimiche da parte degli Stati Uniti durante la Guerra del Vietnam (Ph. Luca Salvatore Pistone)

Ed è così che ci si trova nel “circo degli orrori” di Koki, dove numerose sono le persone malate a causa delle bombe inesplose ancora presenti nel terreno, malattie causate dall’avvelenamento da Agente Arancio.

La Repubblica Democratica del Congo nel racconto di Luca Pistone

E poi alcune tra le più grandi crisi umanitarie del mondo, quella Repubblica Centrafricana e la guerra nella Repubblica Democratica del Congo. In entrambi i paesi Pistone si reca nel 2018. Colpisce l’incipit del capitolo dedicato alla Repubblica Democratica del Congo, quando Pistone scrive: «La guerra nel Nord della Repubblica Democratica del Congo fa davvero schifo», nel descrivere la barbarie di cui sono destinatarie principalmente le donne.

«Il destinatario di tanta violenza? – si legge nel libro di Pistone – La donna. Seni amputati, clitoridi tagliati e ani sventrati sono le firme dei macellai. In Congo il corpo della donna è diventato un campo di battaglia dove è lecito infliggere dolore, umiliare, terrorizzare».

O quando ci porta con lui ad assistere al douleur (dolore), il colloquio che gli psicologi tengono con le donne vittime di violenza sessuale. «Provengono tutte dalla zona di Masisi, una città del Kivu Nord nota per essere il centro di conflitti che vedono coinvolti almeno centoquaranta piccoli gruppi armati irregolari. Possiamo rimanere nella stanza. “Mettetevi comodi. Vedrete quanto in basso può arrivare l’uomo” ci annuncia Justine».

Le Filippine nel libro pubblicato da Aut Aut Edizioni

E poi le Filippine, dove le pene per tentato omicidio e stupro sono molto meno severe di quelle per la tossicodipendenza e lo spaccio. Non esiste angolo delle Filippine dove lo shaboo non abbia attecchito, racconta Pistone.

«È nelle zone più popolari che se ne fa maggiore uso. Prima dell’arrivo di Duterte era facile imbattersi per strada in mucchietti di cannucce di plastica utilizzate per fumare dalle pipe ad acqua artigianali. Significava che da quelle parti si fumava shaboo in grandi quantitativi. Oggi tutti temono di lasciarci le penne e consumatori e venditori nascondono come meglio possono ogni traccia che possa condurli a loro».

Con l’arrivo del presidente Rodrigo Duterte, nel 2016, infatti, le operazioni di polizia contro spacciatori e tossicodipendenti sono aumentate vertiginosamente. Al momento del suo insediamento, le sue parole furono : «Hitler ha massacrato tre milioni di ebrei (giusto puntualizzare che l’Olocausto fece sei milioni di vittime e non tre)… ci sono tre milioni di drogati. Sarei felice di macellarli… Se la Germania ha avuto Hitler, le Filippine avranno me».

In “Dalla guerra. Cronache di ordinaria oppressione” c’è spazio anche per la Giamaica

A gennaio 2019 l’ultimo viaggio, l’ultima storia, in Giamaica, dove essere italiano significa automaticamente essere associato – e con orgoglio – alla mafia. «Sono convinti che, in quanto italiani, siamo mafiosi […] “Quindi siete in Giamaica per fare affari? Noi siamo disponibili ad aiutarvi”. Più cerchiamo di convincerli della nostra estraneità alla malavita siciliana, più quelli immaginano di avere davanti a loro due pezzi da novanta del crimine organizzato nostrano».

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Giovani sicari di Mountain View, uno dei ghetti più malfamati di Kingston (Ph. Luca Salvatore Pistone)

Siamo in un Paese che presenta uno dei tassi di omicidio più alti al mondo, dove la povertà porta la popolazione a trovare riparo nei gruppi malavitosi.

«Non molti anni fa, il Parlamento votò addirittura per il mantenimento della pena di morte (tramite impiccagione) – non applicata da decenni – come deterrente per arginare le violenze. Indisturbata, la Jamaican Posse, la mafia locale, detta legge nei ghetti».

 

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