Welfare digitale: quando la tecnologia minaccia i diritti
L'identificazione biometrica avanza a passi da gigante. Un sistema di welfare digitale che prevede la raccolta di dati personali per accedere a servizi pubblici. Un meccanismo che rischia di lasciare indietro i più poveri. E che potrebbe avere come reali finalità la riduzione della spesa sociale, la sorveglianza e il business. Lo denuncia l'Onu
È il più grande sistema di identificazione biometrica del mondo: raccoglie i dati anagrafici, la fotografia, le impronte digitali e l’immagine dell’iride di oltre 1,2 miliardi cittadini indiani che finiscono nei giganteschi server dell’Unique identification authority of India (Uidai). Per la Banca Mondiale “Aadhaar”, questo il nome del programma lanciato dal governo indiano nel gennaio 2009, è «il programma di identificazione più sofisticato al mondo».
Per i cittadini indiani possedere la Aadhaar card è essenziale per accedere a una vasta gamma di servizi pubblici, come cure mediche, istruzione, pagamento delle tasse. Inoltre, permette di effettuare pagamenti dal proprio conto corrente in assenza di carta di credito. Lo sviluppo del sistema ha permesso anche di risolvere una serie di problemi, tra cui l’identificazione di falsi certificati elettorali o le patenti di guida duplicate per evitare sanzioni.
In una decina di anni, Aadhaar ha permesso all’India di fare un enorme passo avanti verso uno degli obiettivi fissati dall’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile dell’Onu, quello di registrare le nascite e stabilire l’identità legale di tutti cittadini.
La strada da fare, comunque, è ancora molta: negli Stati Uniti 21 milioni di persone non hanno un documento di identità governativo. Nei Paesi dell’Asia meridionale 357 milioni di persone non sono mai state identificate mentre nell’Africa sub-sahariana sarebbero oltre 502 milioni.
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Welfare digitale come “strumento di controllo”
La tecnologia e la sua applicazione per la costruzione di un digital welfare state è stata spesso presentata come uno strumento neutro, capace di migliorare l’accesso alle prestazioni sociali, uniformare i criteri di accesso, velocizzare le pratiche e garantire efficienza ai governi. Ma non è del tutto vero.
In diversi paesi si stanno diffondendo sempre più sistemi di welfare digitali, di cui “Aadhaar” è probabilmente il modello più compiuto a livello globale, in cui «i sistemi di protezione sociale e assistenza sono sempre più spesso guidati dai dati e le tecnologie sono usate per automatizzare, predire, identificare, stimare, individuare e punire».
Troppo spesso, infatti, i veri motivi dietro questi programmi sono la riduzione della spesa sociale, l’istituzione di sistemi di sorveglianza governativa invadente e la generazione di profitti per aziende private.
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La denuncia è contenuta nell’ultimo rapporto di Philip Alston, Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla povertà estrema e i diritti umani, presentato il 18 ottobre in occasione dell’ultima Assemblea generale delle Nazioni Unite. «Mentre l’umanità si muove, forse inesorabilmente, verso il futuro del welfare digitale, deve cambiare rotta in modo significativo e rapido per evitare di inciampare in una distopia digitale del welfare», avverte il Relatore speciale.
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Il digital welfare state penalizza i più poveri
A fare le spese di questa situazione sarebbero, inevitabilmente, i più poveri e gli appartenenti ai ceti sociali più svantaggiati: la mancanza di competenze digitali, oltre che il limitato accesso a internet, vanno a danno proprio dei più poveri e di coloro che sono meno scolarizzati.
«Le tecnologie sono state un fattore di crescente disuguaglianza e hanno facilitato la creazione di una vasta sottoclasse digitale», scrive Alston.
Sempre più spesso, infatti, l’accesso ai servizi avviene esclusivamente per via digitale e questo determina, sia nei paesi più ricchi sia nel Sud del mondo, un’accentuazione delle disparità tra chi ha competenze digitali e un accesso a internet e chi no.
Nel Regno Unito, ad esempio, le persone che non hanno le “competenze digitali” necessarie per svolgere azioni quotidiane sono circa 11,9 milioni (il 22% della popolazione). Più di 4 milioni di adulti (l’8% del totale) non usano internet perché pensano che non sia un ambiente sicuro: tra questi ultimi, quasi la metà appartengono a famiglie a basso reddito. «I soggetti più vulnerabili – scrive Alston – solitamente non vengono coinvolti nell’elaborazione dei sistemi IT e i professionisti di questo settore non hanno gli strumenti per anticipare i problemi che questi potrebbero sollevare».
Diritti a rischio con il welfare digitale
Un futuro guidato dalla tecnologia sarà disastroso se non sarà guidato dal rispetto dei diritti umani: «Nessuno ha colto adeguatamente l’intera gamma di minacce rappresentate dall’emergere dello stato sociale digitale», avverte Alston. Il primo e più evidente rischio è quello legato alla privacy e al fatto che milioni di cittadini in tutto il mondo stanno cedendo – spesso a compagnie private – dati personali e biometrici per poter accedere ai servizi di welfare. Non mancano poi i casi in cui la mancata registrazione ai sistemi digitali ha come conseguenza la perdita del diritto a ricevere assistenza o l’erogazione di un contributo.
Quando la registrazione ad Aadhaar è diventata obbligatoria, tra settembre 2016 e giugno 2017, almeno 2,5 milioni di famiglie povere si sono viste negare il diritto di accedere alle razioni di cibo distribuite dal governo. Solo nell’ottobre 2017 il governo centrale ha dato istruzioni ai singoli Stati di non negare la distribuzione di cibo gratuita a coloro che erano sprovvisti del numero di tessera.
Secondo quanto denunciato da Human Rights Watch, la connessione internet assente e il malfunzionamento dei macchinari per la raccolta dei dati biometrici sono alcuni degli elementi che hanno ulteriormente esacerbato il problema dell’autenticazione per queste persone.
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Kenya: senza welfare digitale saltano i servizi sanitari
Ancora più in là si è spinto il governo del Kenya, che ha obbligato tutti i cittadini e i residenti nel paese, compresi i rifugiati, a dotarsi di un documento di identità per poter accedere ai servizi governativi, compresi quelli sociali. Ma per ottenere questo documento è necessario fornire impronte digitali, scansione della retina e dell’iride, un campione vocale e uno di Dna. Un pronunciamento dell’Alta corte keniana ha dato il via libera al programma governativo, ma su base volontaria. A oggi, circa due terzi della popolazione keniana si sono registrati e, secondo quanto riferisce il report delle Nazioni Unite, il governo minaccia di escludere dall’assistenza sanitaria e dal voto coloro che non si sono registrati.
«Il processo di digitalizzazione e il ruolo crescente svolto dalle decisioni automatizzate attraverso l’uso di algoritmi e intelligenza artificiale hanno, per certi aspetti, facilitato i processi burocratici», conclude il rapporto. L’effetto perverso è stato quello di ribaltare i rapporti tra lo Stato e i cittadini che necessitano di protezione sociale: «In misura maggiore rispetto al passato, l’attuale stato sociale digitale è spesso sostenuto dal presupposto di partenza che l’individuo non è un titolare dei diritti, ma piuttosto un richiedente. In tale veste, una persona deve convincere chi prende le decisioni che è “meritevole”, che soddisfa i criteri di ammissibilità. E gran parte di ciò deve avvenire per via elettronica, a prescindere dalle competenze del richiedente in tale ambito».