
Migranti in Grecia, dopo le isole a rischio anche i centri sulla terraferma
Il recente aumento dei flussi migratori dalla Turchia alla Grecia, dopo aver portato al collasso gli hotspot sulle isole del Mar Egeo, ora rischia di compromettere la situazione anche nei centri d'accoglienza presenti sulla terraferma. Il perché lo spiega il responsabile delle operazioni del Danish Refugee Council
In Grecia, la permanente gestione emergenziale dei flussi migratori sta portando al collasso il già precario sistema di accoglienza sulle isole. L’ultimo tragico episodio risale a lunedì 14 ottobre, quando un devastante incendio è scoppiato nell’hotspot di Samos, dove 6 mila persone vivevano in una struttura progettata per ospitarne 650. Un incidente scatenato da una rissa tra alcuni richiedenti asilo e che ha costretto all’evacuazione centinaia di uomini, donne e bambini. Se da un lato il decongestionamento dei centri insulari si rende necessario, il rischio è che l’incubo del sovraffollamento si riproponga anche nelle diverse strutture presenti sulla terraferma.
Migranti in Grecia: il flusso è in aumento
Il numero di migranti in ingresso dalla Turchia – via mare e via terra – è infatti in aumento. Non da poche settimane, per effetto della guerra innescata da Ankara al confine con la Siria, ma da ormai più di due mesi. I livelli non sono paragonabili a quelli del 2015, quando in un solo anno arrivarono più di 850 mila persone, ma è la prima volta dal 2016 che si registra un picco di arrivi: più di 9 mila ad agosto e oltre 12 mila a settembre, per un totale che supera le 21 mila unità, come dimostrano i dati dell’Unhcr.
Che il piano di azione comune Ue-Turchia fosse in stallo, sulle isole di Lesbo, Samos, Kos, Chios e Leros lo avevano già capito quest’estate. A settembre hanno cominciato ad accorgersene anche alcune ong che operano nei vari centri della Grecia continentale. Tra queste c’è il Danish Refugee Council, che supporta le autorità governative nella gestione del campo, tra gli altri, di Nea Kavala, 56 km a nord di Salonicco.
Il programma del premier Mitsotakis in quattro punti
Come ha spiegato a Osservatorio Diritti Kyriakos Giaglis, responsabile delle operazioni in Grecia per l’organizzazione umanitaria danese, «visto che la vita per i migranti sulle isole è diventata insostenibile, l’attuale governo ha pensato di spostarli sulla terraferma».
Una decisione messa in atto agli inizi di settembre, ma formalizzata solo recentemente da Kyriakos Mitsotakis, leader del partito Nuova Democrazia e primo ministro dal luglio 2019.
Il programma in quattro punti del Premier conservatore contro la crisi migratoria si basa sull’assunto che «la maggior parte delle persone che oggi arriva in Grecia sono migranti economici». Congettura che ha attirato su di sé non poche critiche dal partito di opposizione Syriza, nonché dalle ong e da diversi gruppi che si battono per il rispetto dei diritti umani.
Il piano prevede un’accelerazione delle procedure d’asilo (con il rischio di un aumento dei dinieghi), un maggior coordinamento tra le diverse sezioni della pubblica amministrazione, il rafforzamento delle pattuglie di frontiera, nonché lo spostamento dei migranti dai campi insulari sovraffollati. «Più di 20 mila richiedenti asilo saranno trasferiti in 10 strutture sulla terraferma», ha affermato una settimana fa Mitsotakis.
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Aumento degli sbarchi, trasferimenti necessari
Per il responsabile dell’ufficio umanitario di Oxfam Italia, «i trasferimenti di migranti negli ultimi mesi sulla terraferma non si sono dimostrati sufficienti per compensare i nuovi arrivi, mentre il Governo greco non ha ancora rispettato la promessa di creare altri nuovi 10 mila posti in accoglienza sulla terraferma. Prima che la situazione possa nuovamente sfuggire di mano, chiediamo all’Unione europea e al Governo greco di intervenire per il trasferimento di migranti da tutti i campi sovraffollati che si trovano sulle isole greche, a partire da quello di Moria», ha dichiarato Riccardo Sansone in occasione dell’uscita del nuovo report sulle condizioni di vita nell’hotspot di Lesbo.
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Nea Kavala, il campo profughi che rischia di diventare come Moria
Il timore però è che la gestione ancora una volta emergenziale dei flussi, dopo i centri di accoglienza sulle isole, porti al collasso anche le strutture presenti in continente. A Nea Kavala la situazione non è ancora ai livelli di Moria (dove, rispetto ai 3 mila posti, a settembre ci “vivevano” più di 13 mila persone) o di Samos, ma le criticità stanno iniziando a venire a galla.
Allestito in una ex base aeronautica, il campo era stato aperto nel 2016 per ospitare i profughi evacuati da Idomeni. Sorto in mezzo al nulla come somma di container – la cittadina più vicina, Polykastro, dista 40 minuti a piedi – fino ad agosto ospitava circa 800 persone. Ma a inizio settembre, da un giorno all’altro, i volontari si sono trovati a dover montare tende per accogliere più di mille persone in arrivo da Lesbo.

Centri sovraffolati sulle isole, situazione critica sulla terraferma
Il fatto è che «sulla terraferma – spiega Giaglis – i campi sono già tutti pieni, quindi la soluzione a Nea Kavala, ma non solo, è stata quella di sistemare le persone nelle tende. Per i migranti sono condizioni insostenibili, mentre per l’Europa la situazione sarà sempre più imbarazzante, almeno finché tutti gli stati membri non adotteranno un approccio solidaristico, accogliendo in casa propria parte di queste persone. Per ora, tocca ancora una volta a noi affrontare il problema. Qui la qualità della vita va sempre più peggiorando, perché c’è una bella differenza tra 1.000 persone, in una struttura che ne può contenere 948, e 2.000. Già vivere in un container non è il massimo, ma almeno ci sono un bagno e le brandine, figuratevi nelle tende, specialmente ora che sta arrivando l’inverno! Eppure in Grecia andiamo avanti così da ormai più di tre anni».
Isolamento, mancanza di assistenza medica e carenza di servizi
«Prima lo spazio era adeguato, ora invece c’è un evidente sovraffollamento. I problemi sono diversi. Abbiamo un solo medico per duemila persone. Non è sufficiente, ci servono più dottori, ma questo non solo a Nea Kavala. La verità è che il ministero della Salute non ha la capacità di reclutare personale sufficiente da inviare in tutti i campi. Nello specifico, poi, Nea Kavala è in una zona arida, lontano dalla cittadina di Polykastro e quindi dai servizi, per cui le persone sono piuttosto isolate. E questo è un altro problema. Ci sono attività dedicate ai bambini, anche qualche corso, ma naturalmente non è sufficiente».
Anche per questo il Danish Refugee Council sta collaborando con l’Unhcr al programma di ricollocamento in alloggi urbani denominato Estia (Emergency Support to Integration and Accommodation programme). L’obiettivo è di decongestionare il campo prima che arrivi l’inverno.
Incertezza sul futuro e senso di insicurezza: molti migranti soffrono di depressione
«In Grecia oggi ci sono 29 strutture e a breve ne apriranno delle altre, ha fatto sapere il governo. Il Danish Refugee Council è presente in nove. La peggiore, per certi versi, è proprio Nea Kavala, ma anche a Skaramargas la situazione è difficile. Sicuramente uno degli aspetti cruciali è il senso di perenne insicurezza in cui vivono i rifugiati. Ci sono di continuo risse o attacchi a donne e a minori. Purtroppo la polizia non ha abbastanza fondi per rimanere a lungo e con un numero sufficiente di agenti per garantire la sicurezza adeguata. Ci sono persone in stato di ansia, agitazione, moltissime depresse visto che non riescono a vedere una via d’uscita». La storia sembra dunque tragicamente ripetersi. A Moria come a Nea Kavala, e in tutti i gli altri centri di accoglienza, in Grecia come nel resto del Mediterraneo.
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Il ricatto di Erdogan e l’isolamento della Grecia
Il crescente afflusso di migranti dalla Turchia, registrato quest’estate, è stato solo l’inizio. Oggi c’è un altro fattore che rischia di compromettere la situazione, con delle pesanti ripercussioni anche sulle strutture presenti nella Grecia continentale. Il premier Mitsotakis si trova infatti stretto in una morsa, determinata dalla guerra sferrata dai turchi contro i curdi del Rojava.
Da un lato le minacce del presidente Recep Tayyip Erdoğan. L’annuncio del “sultano” è del 10 ottobre scorso: «Ehi Ue, sveglia. Ve lo ridico: se tentate di presentare la nostra operazione lì come un’invasione, apriremo le porte». Dall’altro un’Ue di nuovo titubante di fronte al ricatto turco di lasciare entrare in Europa 3,6 milioni di migranti. In Grecia, il timore che si rimaterializzi il tragico scenario del 2015 è più che mai reale.