3 ottobre, una giornata in memoria delle vittime dell’immigrazione
A 6 anni dalla strage di Lampedusa, in cui morirono 366 migranti, si celebra oggi la Giornata nazionale delle vittime dell'immigrazione. Per ricordare i migranti che hanno perso la vita cercando di raggiungere l'Europa che, in molti casi, non sono neppure potuti essere identificati
Sono passati sei anni da quel 3 ottobre 2013, quando al largo dell’Isola dei Conigli, a Lampedusa, nel tentativo di trovare una vita migliore, intorno alle 4.30 del mattino morirono 366 migranti.
Una vera e propria strage, che portò il Parlamento, il 21 marzo del 2016, su proposta del Comitato Tre Ottobre, nato proprio a seguito del naufragio, a istituire la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione. Che, appunto, si celebra il 3 ottobre.
La legge n. 45 del 2016, entrata in vigore il 16 aprile successivo, con cui è stata istituita la ricorrenza ne spiega la motivazione all’articolo 1:
«Al fine di conservare e di rinnovare la memoria di quanti hanno perso la vita nel tentativo di emigrare verso il nostro Paese per sfuggire alle guerre, alle persecuzioni e alla miseria».
Cos’è la giornata in memoria delle vittime dell’immigrazione
Per questa sesta edizione (la giornata di commemorazione esiste dal 2014), sono tante le iniziative che il Comitato Tre ottobre ha messo in campo per non dimenticare le vittime.
Sull’isola di Lampedusa, dal 30 settembre al 3 ottobre sono arrivati oltre 200 studenti provenienti da più di 60 scuole di 20 Paesi europei. Il progetto a capo di tutto, “P(r)onti per l’accoglienza“, ha messo in piedi iniziative tra cui eventi teatrali, musicali e soprattutto formativi: gli studenti sono stati coinvolti in workshop su temi come la tratta di esseri umani, i minori stranieri non accompagnati, i rifugiati e in alcuni di questi incontri hanno potuto conoscere i sopravvissuti alla tragedia del 2013.
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E oggi, 3 ottobre, sull’isola si tiene la consueta marcia da Piazza Castello verso la Porta d’Europa che vede il coinvolgimento delle istituzioni, dei superstiti, dei familiari delle vittime degli studenti e della comunità locale.
La giornata nazionale della Memoria e dell’Accoglienza – così viene chiamata – è anche legata a una campagna di sensibilizzazione dal titolo #siamosullastessabarca, che ha l’obiettivo, a prescindere dalle ricorrenza annuale,
«di informare correttamente sulle tematiche migratorie e favorire la partecipazione attiva dell’opinione pubblica e in particolare modo delle nuove generazioni, al fine di stimolarle a diventare il motore di un cambiamento duraturo, attraverso il dialogo e la condivisione con l’altro», come spiegano i membri del Comitato.
Nel Mediterraneo si continua a morire
Una campagna necessaria, visto che nel Mediterraneo si muore ancora, giorno dopo giorno. A dirlo sono i numeri, in particolare quelli forniti dall’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, che li aggiorna costantemente.
Gli ultimi dati sugli arrivi risalgono al 29 settembre 2019 e dicono che nei primi 9 mesi di quest’anno sono approdati nel Mediterraneo 78.443 migranti, di cui 64.215 via mare e, in particolare, in Italia, Spagna, Cipro e Malta, mentre 14.228 sono giunti via terra. Di questi, sono 1.028 (ultimo aggiornamento: 1° ottobre 2019), ossia l’1,31%, le persone che non sono mai arrivate perché decedute o disperse.
Si muore in mare poco dopo essere salpati o al largo delle coste siciliane, così come spostandosi via terra. Incidenti di auto, con camion che trasportano i migranti o anche nel tentativo di attraversare un fiume che segna il confine tra uno stato e l’altro.
Un dato che, se confrontato con gli anni precedenti, evidenzierebbe una sensibile diminuzione: solo nel 2018 i deceduti e dispersi erano 2.277, a fronte di un numero di arrivi che è quasi il doppio di quello di quest’anno ossia 141.472. Ragionando per percentuali: nel 2018 l’1,60% mentre nel 2017 si sono registrati 3.169 tra morti e dispersi su un arrivo totale di 185.139 persone, l’1,71%.
Il dato più eclatante, per quanto riguarda gli arrivi, è quello del 2015, quando sono arrivati nel Mediterraneo 1.032.498 persone con 3.771 morti o dispersi (lo 0,36% del totale) mentre nel 2014 la percentuale di persone che non ce l’ha fatta è dell’1,56%, ossia 3.538 su 225.455 che hanno deciso di lasciare la propria terra di origine e arrivare in Europa.
Quanto alle destinazioni, nel 2019 non è l’Italia la meta principale. A dirlo sono ancora i dati Unhcr: nel 2019 sono stati 7.489 migranti, contro gli oltre 45 mila arrivati in Grecia. Anche la Spagna ne ha accolti molto di più di quanto abbia fatto l’Italia: 22.978 mila.
Vittime dell’immigrazione: i dati dei migranti in Italia
Anche il ministero dell’Interno, ogni giorno, diffonde il suo “cruscotto statistico“, ossia i dati relativi all’immigrazione, attraverso il dipartimento di Pubblica sicurezza. Gli ultimi dati riguadano il periodo che va dal 1° gennaio al 30 settembre 2019 e si concentrano in particolare sulle persone sbarcate in Italia, ossia arrivate via mare.
Stando al dipartimento, si tratta di 7.521 migranti che, rispetto al 2018, sono diminuiti del 64,23% e del 92,87% rispetto al 2017. La maggior parte di loro, secondo le dichiarazioni rese al momento dello sbarco, proviene dalla Tunisia, seguita da Pakistan e Costa d’Avorio.
La diminuzione degli sbarchi è dovuta a un insieme di fattori. Tra questi, ci sono gli accordi tra Italia e Libia. Già nel settembre 2018, del resto, l’Unhcr faceva notare in un documento come molte delle persone intercettate e salvate in mare vengano rimpatriate dalla guardia costiera libica alle autorità del dipartimento per la lotta alla migrazione (Dcim), «che le trasferisce direttamente nei centri di detenzione gestiti dal Governo, dove vengono detenute per periodi indefiniti».
Peraltro, non esiste alcuna possibilità di rilascio, «tranne in caso di rimpatrio, evacuazione o reinsediamento in paesi terzi». Nel 2018, secondo le stime dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, «oltre 8.000 persone si trovavano detenute in centri di detenzione gestiti dal Dcim dopo essere state salvate o intercettate in mare, o dopo essere state arrestate a terra durante incursioni in abitazioni o controlli di identità, anche in zone vicine ai confini terrestri».
Naufraghi senza volto: il difficile lavoro di identificazione delle vittime
I numeri, però, raccontano solo parte della tragedia. Non riescono infatti a tratteggiare una situazione in cui essere vittime delle migrazioni, avere perso la vita in mare, possa voler dire restare per molto tempo, se non addirittura per sempre, dei “Naufraghi senza volto”.
Che è poi il titolo del libro scritto da Cristina Cattaneo e pubblicato da Raffaello Cortina editore. Nel testo, il medico legale, componente del Labanof (Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense) dell’Università di Milano, spiega come lei e il suo team, su richiesta dell’ufficio del commissariato straordinario del governo per le persone scomparse, a seguito della strage di Lampedusa, iniziarono a compiere un’impresa: quella di identificare più persone possibili e di riconoscere alle vittime delle migrazioni un diritto fondamentale, quello di avere una vera sepoltura.
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Alle morti in mare è negata l’identità, ai parenti il diritto di sapere
Questo lavoro cerca anche «di ricostruire un filo che conduca il disastro e le sue vittime ai parenti in modo efficace». Dare modo a chi sta aspettando qualcuno e non ha più sue notizie da mesi, se non da anni, di esercitare il diritto di sapere.
La Cattaneo lo spiega così:
«Finché una persona non riesce a vedere il corpo dell’altro nutre sempre la segreta speranza che possa essere viva».
Inoltre, ci sono ripercussioni anche di carattere civile. Come il caso di uno zio che, sospettando di avere perso la sorella in mare a Lampedusa, cercava di fare in modo che il nipote, rimasto orfano in Somalia (la sorella non aveva abbastanza soldi per portarlo con sé), potesse raggiungere la Svezia o il Canada. Cosa impossibile, secondo le autorità, fino a quando non fosse stato presentato il certificato di morte, che non poteva però essere emesso finché non si fosse avuta l’assoluta certezza del decesso (cosa che è poi successa grazie all’identificazione).
Le storie di chi cerca una vita migliore passano poi dal ragazzo eritreo di cui si trova, tagliando i vestiti, un sacchettino che inizialmente si pensa possa essere droga e che invece è solo la terra che i migranti portano spesso con sé. O, ancora, quella di un 14enne proveniente dal Mali, che, appallottolata tra i vestiti, ha la sua pagella, il suo “lasciapassare” per la nuova vita e la dimostrazione del suo volercela mettere tutta.
Come avviene l’identificazione delle vittime dell’immigrazione
L’identificazione dei cadaveri non è affatto facile: a partire dal 1° ottobre 2014 – quasi un anno dopo dalla tragedia – la Cattaneo e il suo team cercano di incrociare i dati post mortem con quelli ante mortem. I primi sono relativi al recupero dei cadaveri, al cercare di inserire in una sorta di banca dati tutte le informazioni possibili di natura antropologica, tossicologica e genetica, avvalendosi di lastre e di Tac, oltre che di controlli meticolosi e ripetuti, perché i dettagli possono fare la differenza; i secondi, invece, mirano a ricostruire la vita delle vittime grazie alle interviste ai parenti. Per i morti del 3 ottobre 2013, riescono a farlo per 35 dei 43 eritrei di cui sono riusciti ad avere dati ante mortem.
«Ancora oggi andiamo avanti, nel tentativo di aumentare questo numero», scrive la Cattaneo.
Il confronto tra questi dati non è scontato. Intanto bisogna lavorare nel minor tempo possibile perché il cadavere senza identità prima o poi sarà sepolto o cremato, perdendo così ogni possibilità di riconoscimento. Quanto ai dati prima della morte, bisogna cercare di trovare i parenti e non è detto che siano facili da raggiungere. O, qualora lo siano, possono non avere i soldi per venire in Italia a riconoscere i morti o a farsi prelevare tracce del Dna.
Un lavoro certosino, che ha dimostrato, prima con la strage di Lampedusa e poi con quella al largo delle coste libiche avvenuta il 18 aprile del 2015, come tale riconoscimento possa essere fatto anche con dati non genetici, come le forme dei denti, delle ossa, delle impronte digitali e anche del volto. Dipende da tutto quello che si riesce a raccogliere e confrontare. Come scrive la Cattaneo:
«Si è cercato, tra mille difficoltà, di accorciare le distanze tra noi e i migranti tentando in qualche modo di tutelare i loro diritti e di trattare le “loro” vittime come le “nostre”. Tecnicamente tutto ciò è possibile e dovrebbe bastare affinché per le istituzioni nazionali e internazionali diventi un obbligo attivarsi per restituire un nome alle vittime di qualsiasi paese. Le difficoltà, anche tecniche, sono ancora molte, ma sono superabili e ormai la strada è in parte tracciata».
Fondamentale perché le vittime dell’immigrazione non siano vittime due volte.