Kashmir sotto assedio: l’India manda all’aria l’autonomia e reprime il dissenso
L'India di Narendra Modi rimette in discussione la storica autonomia del Jammu e Kashmir, reprime il dissenso e impone l'isolamento della regione. Migliaia gli arresti in Kashmir, dove l'esercito indiano viene accusato di aver usato la tortura sui civili
«Mi hanno picchiato su tutto il corpo. Ci hanno preso a calci, picchiato con bastoni e cavi, ci hanno colpito con scariche elettriche. Ci picchiavano sul retro delle gambe e se svenivamo ci davano scosse elettriche per farci riprendere. Quando ci colpivano e noi urlavamo, ci tappavano la bocca col fango. Gli abbiamo detto che eravamo innocenti. Gli abbiamo chiesto perché lo facevano, ma non ci ascoltavano».
È una delle testimonianze raccolte in una video inchiesta della BBC in Kashmir, entrato oggi nel 31esimo giorno di coprifuoco e blackout totale delle telecomunicazioni che sta mettendo a dura prova i residenti, stretti sotto la morsa dell’assedio indiano, il peggiore degli ultimi 30 anni.
Il giornalista Sameer Hashmi ha visitato una serie di villaggi nei distretti meridionali, considerati gli incubatori della militanza anti-indiana, intervistando a volto coperto vittime e testimoni, raccogliendo racconti di incursioni notturne, sparizioni forzate, pestaggi e torture, anche di ragazzini.
In un villaggio i residenti hanno detto che l’esercito indiano è andato di casa in casa, nel pieno della notte, per interrogare e arrestare presunti fiancheggiatori dei militanti e stone pelters (i giovanissimi delle sassaiole, l’intifada dei kashmiri contro le forze di sicurezza indiane), a poche ore dalla controversa decisione di revocare l’autonomia nominale alla regione sotto il controllo indiano, resa pubblica dal ministro degli Affari interni, Amit Shah. Il portavoce dell’esercito indiano, colonnello Aman Anand, ha seccamente smentito le accuse.
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Nel Kashmir indiano arresti e testimonianze di torture
I primi dati che emergono dalla valle dopo il giro di vite dell’ultimo mese sono questi: tra 2.300 e 4.000 persone (secondo stime delle agenzie AP e AFP), principalmente uomini e ragazzi, sono stati arrestati nel Kashmir indiano da quando il governo di Nuova Delhi, a inizio agosto, ha imposto all’ex-principato himalayano severe restrizioni alla libertà di movimento, di assembramento e opinione, sospendendo le telecomunicazioni e gettando la regione – unico stato a maggioranza musulmana d’India, conteso da 70 anni con il vicino Pakistan – nel totale isolamento.
Arrestati in virtù di una controversa legge sulla sicurezza pubblica che permettere di detenere un cittadino fino a due anni senza accuse né processo – una norma usata spesso per silenziare il dissenso nella valle – molti sono stati traferiti in prigioni fuori dallo stato. Paura, rabbia e incertezza serpeggiano nella regione.
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L’India ipoteca l’autonomia di Jammu e Kashmir
In una mossa senza precedenti, il governo guidato da Narendra Modi – leader del Bharatiya Janata Party (Bjp), espressione della destra ultra-nazionalista hindu – lo scorso 5 agosto ha revocato due provvisioni costituzionali (artt. 370 e 35A) che concedevano al Kashmir sotto il suo controllo una certa autonomia sul piano costituzionale, amministrativo e demografico, declassando Jammu e Kashmir a due union territories amministrati direttamente da Delhi.
In Kashmir era in vigore un insieme di leggi – ormai ridotto all’osso – che per 70 anni ha rappresentato un freno al pericolo di assimilazione da parte dell’India, che oggi diventa di nuovo una minaccia concreta. Ai tempi della Partizione dell’Impero Britannico – la sanguinosa frattura che ha portato alla nascita di un’India hindu, ma secolare, e un Pakistan musulmano – il Kashmir, che ha sempre rivendicato la sua indipendenza, ha aderito all’India con la clausola di preservare la sua autonomia.
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Kashmir conteso tra India e Pakistan: storia di una guerra “a bassa intensità”
La firma dello “Strumento di accesso” che ha formalmente decretato l’adesione del principato alla neonata repubblica indiana, conteneva le garanzie costituzionali per l’autonomia dello stato (articolo 370), ma anche i semi della futura disputa territoriale.
Il trattato prevedeva che l’adesione fosse approvata tramite referendum, come raccomandato anche dalla Risoluzione n. 47 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Referendum che, però, non è mai stato indetto: i kashmiri non hanno mai avuto voce in capitolo sul loro futuro.
Verso la fine degli anni ‘80, in concomitanza con l’ascesa dell’estremismo hindu e la fine della guerra russo-afghana, il sentimento anti-indiano ha alimentato la resistenza popolare e ingrossato le fila della militanza di matrice jihadista, sostenuta e foraggiata dall’esercito pakistano, che si è scontrata con la brutale repressione delle autorità.
Da tre decenni i kashmiri vivono sotto un’occupazione in cui i militari che presidiano la valle (tra le 500 e le 700 mila unità, uno ogni 12 civili) si sono sistematicamente macchiati di gravi violazioni dei diritti umani, dietro lo scudo dell’impunità che protegge le forze di sicurezza: torture, stupri, sparizioni forzate, omicidi extragiudiziali, fosse comuni sono la norma in una regione che ha visto migliaia giovani, istruiti e di buona famiglia, unirsi alla militanza per conquistare l’azadi, la libertà.
Un conflitto, definito “a bassa intensità”, che nelle sue varie fasi ha fatto, dal 1989 a oggi, decine di migliaia di morti (ufficialmente 47 mila, il doppio secondo le organizzazioni umanitarie).
Dal 2010 (e ancora nel 2016) la cosiddetta militancy ha acquisito nuovo vigore e sempre più giovani cresciuti negli anni della repressione si sono uniti all’insorgenza indipendentista. Il governo guidato da Narendra Modi, in carica dal 2014, ha inaugurato una politica di tolleranza zero verso terroristi e militanti che si è tradotta in una repressione capillare e una sempre più massiccia presenza militare nella valle.
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Situazione attuale in Kashmir: normalità ancora lontana
La decisione di revocare l’autonomia e porre la regione sotto il diretto controllo di Delhi – la più audace mossa politica degli ultimi 70 anni – è stata presentata dall’esecutivo come un’azione per promuovere lo sviluppo della regione e liberarla dallo spettro del terrorismo che ne ha impedito la piena integrazione all’India. Nel tentativo di sedare sul nascere ogni possibile rivolta, dal 4 agosto scorso le autorità hanno imposto il coprifuoco in tutta la regione, insieme alla sospensione a tempo indeterminato dei servizi di telecomunicazione, inclusi internet, reti mobili e fisse.
Il blocco totale delle comunicazioni, inoltre, ha reso difficile la diffusione di notizie di prima mano che potessero contrastare la narrativa ufficiale orchestrata dal governo e dai media mainstream che dipingono un Kashmir tranquillo, che sta lentamente tornando alla “normalità”.
Coprifuoco e blackout delle comunicazioni in Kashmir
In queste ore il Kashmir sembra una pentola a pressione pronta a scoppiare. Sono almeno 500 le proteste esplose nella valle nell’ultimo mese, come riportato da BBC, New York Times e Al Jazeera, al netto delle smentite del governo, mentre migliaia di persone sono state arrestate, interrogate, malmenate, torturate.
Negli ospedali scarseggiano le medicine e ai medici non è permesso parlare con i reporter dei pazienti feriti. Secondo quanto denunciato da Amnesty International, civili e manifestanti feriti dai lacrimogeni e dai pellet durante le cariche della polizia cercano di curarsi da soli perché andando in ospedale temono di essere arrestati.
Omar Salim, un urologo kashmiri che in un’intervista ha denunciato la situazione, è stato arrestato per aver dichiarato che il protrarsi del coprifuoco farà aumentare i morti: i malati non riescono a raggiungere gli ospedali, dove i medicinali sono finiti e i nuovi ordini non vengono consegnati.
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La mappa del Jammu e Kashmir
Kashmir: India alla prova della democrazia
A inizio luglio, dopo che un lungo report aveva accusato le autorità indiane di ricorrere sistematicamente alla tortura per reprime il dissenso nella valle, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite aveva invitato l’India a istituire una commissione d’inchiesta per condurre un’indagine sulle accuse di violazioni in Kashmir (leggi “Kashmir, l’Onu accusa: “Diritti umani violati al confine India-Pakistan”). A metà agosto, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si è riunito d’urgenza a porte chiuse per discutere dei recenti sviluppi nella regione, senza però giungere a una risoluzione.
Imran Khan, premier pakistano, dopo aver ricordato all’India che entrambi i paesi sono potenze nucleari, qualche giorno fa ha specificato che non sarà Islamabad ad attaccare Delhi per prima. Le autorità hanno deciso di allentare parzialmente alcune delle restrizioni imposte ai civili procedendo per fasi. Mentre gli occhi del mondo sono puntati sulla “Linea di Controllo”, il confine di fatto tra i due rivali nucleari, il Kashmir, banco di prova della “democrazia più grande al mondo” (e pallino della destra nazionalista), sta diventando sempre più la “Palestina d’India”.