Kashmir, l’Onu accusa: “Diritti umani violati al confine India-Pakistan”
India e Pakistan salgono sul banco degli imputati dell'Alto commissariato Onu per i diritti umani a causa della situazione in Kashmir. Le Nazioni Unite denunciano uso eccessivo della forza, vittime civili, detenzioni arbitrarie, torture e impunità. Oltre a sparizioni forzate e restrizioni sulla libertà fondamentali. Ecco cosa sta succedendo nella regione
L’8 luglio l’Ufficio dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) ha stilato il secondo rapporto sul Kashmir in poco più di un anno, che ha ribadito le accuse di crescenti violazioni dei diritti umani su entrambi i lati della Line of Control (LoC), il confine di fatto tra India e Pakistan, che separa il Kashmir indiano da quello pakistano, scatenando una bufera.
Nel giugno 2018, sotto la direzione dell’allora capo dell’Ohchr, Zeid Ra’ad Al Hussein, era stato pubblicato il primo rapporto in assoluto sulle diffuse e gravi violazioni dei diritti umani e l’uccisione di civili da parte delle forze di sicurezza in Kashmir, relativo al periodo 2016-2018, già respinto dall’India.
Kashmir: i diritti umani violati nel rapporto Onu
Poco più di un anno dopo, l’aggiornamento di 43 pagine, pubblicato sotto la nuova guida di Michelle Bachelet, è giunto a conclusioni simili puntando il dito contro l’uso eccessivo della forza, le vittime civili, le detenzioni arbitrarie, le torture e l’impunità per le violazioni dei diritti umani da parte dei militari indiani.
Nel rapporto sono citate anche le sparizioni forzate e le restrizioni sulla libertà d’espressione, opinione, riunione pacifica e associazione nella parte pakistana. Mentre il Pakistan ha accolto il rapporto, pur richiedendo alcune modifiche, l’India l’ha respinto, definendolo «fazioso», una «narrativa falsa che ignora la questione centrale del terrorismo transfrontaliero», che fornisce una legittimazione alle violenze per mano dello stato. Delhi, da sempre, accusa Islamabad di offrire protezione e sostegno logistico a gruppi terroristici separatisti attivi in territorio indiano.
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Il documento invita anche il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, di cui l’India è membro, a «considerare l’eventuale istituzione di una commissione d’inchiesta per condurre un’indagine internazionale indipendente e completa sulle accuse di violazioni dei diritti umani in Kashmir». Invito già avanzato dal primo rapporto del 2018, ma rimasto lettera morta.
E mentre in questi anni l’India ha garantito l’accesso ai funzionari dell’Alto commissariato Onu, la parte pakistana del confine resta off limits.
L’ultimo rapporto, relativo al periodo che va da maggio 2018 ad aprile 2019, fa inoltre riferimento all’attacco suicida di Pulwama che ha causato la morte di circa 40 soldati delle forze di sicurezza indiane e ha portato a ulteriori tensioni nel Kashmir indiano, sullo sfondo degli inaspriti rapporti tra Pakistan e India.
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Kashmir: guerra India – Pakistan sfiorata in Pulwama
La regione a maggioranza musulmana del Kashmir è al centro di un’annosa disputa territoriale ed è rivendicata sia dall’India sia dal Pakistan che, da quando sono diventate due entità statali, hanno combattuto due guerre e sono stati prossimi a una terza guerra all’inizio di quest’anno.
L’uccisione di oltre 40 paramilitari indiani della Central Reserve Police Force (Crpf) nell’attacco suicida di Pulwama lo scorso febbraio, rivendicato da un gruppo separatista basato in Pakistan, ha innescato un pericoloso confronto militare tra le due potenze nucleari. Una simile escalation non si vedeva dagli anni ’70 ed è stata seguita da mesi di violenta repressione in tutta la valle del Kashmir (indiano), oltre a ritorsioni e violenze ai danni di cittadini kashmiri in varie parti d’India.
La mappa: cartina del Jammu e Kashmir
Kashmir: storia di tensioni nello stato di religione islamica
La regione, parte dello stato confederato indiano di Jammu e Kashmir, considerata una delle zone più militarizzate al mondo con 650 mila tra personale di sicurezza e forze speciali, ha vissuto varie ondate di proteste contro quella che è percepita dalla popolazione come un’occupazione militare: tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ’90 – i cosiddetti anni della militancy, la lotta armata per l’autodeterminazione – e all’inizio degli anni 2000 e poi di nuovo nel 2008 e nel 2010.
Nel luglio 2016, l’uccisione del giovane e carismatico comandante dell’Hizbul Mujahideen Burhan Wani, ha scatenato settimane di partecipate proteste in tutta la valle, cui è seguita una repressione senza precedenti da parte delle forze di sicurezza contro militanti e civili, che si protrae a tutt’oggi. Sempre più giovani kashmiri, cresciuti negli anni della militancy sotto la pressione costante del coprifuoco e delle forze di polizia, dopo l’uccisione di Burhan Wani si sono uniti ai gruppi separatisti.
Intanto il premier Narendra Modi, rieletto a maggio per un secondo mandato, ha appena inaugurato una politica di tolleranza zero con terroristi e separatisti.
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Nel 2018 record di vittime civili nella guerra per l’autodeterminazione del Kashmir
Secondo la Jammu and Kashmir Coalition of Civil Society (Jkccs), una federazione di organizzazioni per i diritti umani citata nel rapporto, circa 201 civili sono stati uccisi nel 2018, il numero più alto dell’ultimo decennio. Lo scorso anno si è registrato anche il maggior numero di vittime connesse al conflitto dal 2008, con 586 persone uccise, tra cui 267 membri di gruppi armati e 159 membri delle forze di sicurezza.
Tuttavia, il ministero dell’Interno indiano ha dichiarato che solo 37 civili, 238 terroristi e 86 membri delle forze di sicurezza sono stati uccisi lo scorso anno. Secondo la Jkccs, 1.081 civili sono morti in omicidi extragiudiziali tra il 2008 e il 2018. Dei 160 civili uccisi nel 2018, 71 sarebbero stati ammazzati dalle forze di sicurezza indiane, mentre tra il 2013 e il 2018 le morti dei civili sono aumentate del 200 per cento.
Il testo Onu denuncia l’uso eccessivo della forza
Il rapporto dell’Ohchr critica l’eccessivo uso della forza da parte delle forze di sicurezza indiane per rispondere alle proteste che hanno incendiato la valle da luglio 2016, compreso l’uso continuato di armi a pallini (noti come pellet guns) per controllare la folla, nonostante abbiano causato un gran numero di morti e feriti tra i civili e non siano utilizzati in nessun’altra parte d’India.
I pellet, usati nella valle del Kashmir almeno dal 2010 come mezzo di controllo della folla, sono fucili a pompa che sparano con ampio raggio centinaia di micro pallottole di metallo. Sarebbero 1.253 le persone che hanno perso la vista tra la metà del 2016 e la fine del 2018 per i pellet sparati dalle forze di sicurezza durante le proteste e le sassaiole, puntando al volto dei civili e dei manifestanti, spesso adolescenti.
Kahsmir: torture registrate al confine India – Pakistan
Il rapporto ha anche criticato i ritardi (o l’assenza) di giustizia in diversi casi di abusi, come le sparizioni forzate, le violenze sessuali da parte dei militari, l’uso eccessivo della forza durante le «operazioni di ricerca», cui spesso fanno seguito morti civili, accuse di torture inaudite e morti in custodia.
Lo scorso febbraio, la Jkccs, insieme all’Associazione dei genitori delle persone scomparse (Apdp), ha pubblicato un lungo report di 550 pagine, “Tortura: lo strumento di controllo dello Stato indiano in Jammu e Kashmir”, il primo studio completo sul fenomeno della tortura dal 1990 in poi.
Dai 432 casi di persone sopravvissute, intervistate nel rapporto, «la tortura emerge come uno dei metodi di rappresaglia da parte dello Stato contro “l’altro”, visto come una sfida alla sua stessa legittimità, ma emerge anche come parte di una routine, intrinseca all’esistenza stessa dello stato indiano nel Kashmir». «In assenza di una legge che criminalizzi la tortura e nell’assoluta impunità di cui godono le forze armate indiane in Kashmir – si legge nel rapporto – la tortura continuerà ad essere perpetrata impunemente».
L’Armed Forces (Jammu and Kashmir) Special Powers Act (Afspa), la legge che concede poteri speciali alle forze di sicurezza, è un grosso ostacolo alla responsabilità delle forze armate in quanto fornisce immunità effettiva per gravi violazioni dei diritti umani.
«Da quando la legge è entrata in vigore nel Kashmir nel 1990, il governo indiano non ha permesso che le forze di sicurezza fossero perseguite nei tribunali civili per i crimini commessi», si legge in comunicato della ong Human Rights Watch.
«Il rifiuto del governo indiano dell’ultimo rapporto Onu sui diritti umani in Kashmir dimostra che non è disposto a confrontarsi con i propri fallimenti», ha dichiarato Meenakshi Ganguly, direttrice dell’organizzazione per l’Asia meridionale. «Sia l’India sia il Pakistan dovrebbero accettare le conclusioni del rapporto e aprire un’indagine indipendente per contribuire a porre fine a gravi abusi nel Kashmir».