Difensori dei diritti umani: storia del maestro Damiàn Gallardo
Damiàn Gallardo Martinéz è un insegnante messicano che ha passato in carcere 5 anni e 7 mesi della sua vita ingiustamente. Catturato e portato via da casa senza un mandato, in prigione è stato torturato e messo in isolamento. Alla fine del 2018 è stato liberato ed è considerato oggi un difensore dei diritti umani. Ecco cosa ha raccontato a Osservatorio Diritti
Damiàn Gallardo Martinéz è un insegnante messicano, uno dei “maestri” di Oaxaca che nel 2012 si è opposto alla riforma scolastica voluta dall’ex presidente Enrique Peña Nieto. Lui però ama definirsi un guerriero, come i suoi antenati, gli Ayuuk. «No somos muchos, pero somos machos» (Non siamo molti, ma siamo machi), dice riferendosi ai difensori dei diritti umani.
Mentre lo dice sorride, come se i 5 anni e 7 mesi di prigione non fossero riusciti a scalfire lo sguardo poetico che traspare dai suoi occhi. È stato incarcerato ingiustamente in Messico il 18 maggio del 2013. Quella notte, un gruppo di uomini armati ha fatto irruzione in casa sua e senza un documento né un mandato d’arresto lo ha prelevato con la forza. È risultato desaparecido per 30 ore, dopodiché si è venuto a sapere che lo avevano portato in un penitenziario nello stato di Jalisco.
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Dietro le sbarre è stato torturato e messo in isolamento per aver denunciato le sevizie a cui era sottoposto. Insieme a lui sono stati arrestati altri 12 suoi compagni di lotta, tutti accusati prima di crimine organizzato e poi, in mancanza di prove, di sequestro.
Quello compiuto nei loro confronti è stato uno dei primi atti di criminalizzazione dei difensori dei diritti umani. Una politica attuata sistematicamente negli anni successivi, con il solo scopo di delegittimarne la lotta. In Messico, ma non solo, come si legge nel rapporto della ong Front Line Defenders.
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Il suo caso ha fatto il giro del mondo. Più di 50 ong, nazionali e internazionali, si sono schierate al suo fianco. Nel 2014 il Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria dell’Onu aveva definito la sua detenzione “arbitraria”, sollecitando il governo messicano affinché lo rilasciasse immediatamente.
Alla fine Damiàn Gallardo Martinéz è stato liberato il 28 dicembre del 2018. Osservatorio Diritti lo ha incontrato a Roma, ultima tappa di un tour europeo che lo ha portato a conoscere centinaia di suoi sostenitori.
Il viaggio è stata anche l’occasione per presentare il libro che ha scritto in carcere, Fragmentos de un espejo oculto. Palabras y gráficas desde la prisión política (Frammenti di uno specchio occulto. Parole e disegni dalla prigione politica).
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Si tratta di una raccolta di lettere, quelle che Damiàn scriveva alla famiglia e ai colleghi. Mentre era in prigione ha anche scoperto di essere bravo a disegnare. Lo faceva mescolando gli inchiostri delle penne Bic, unico diversivo che lo teneva occupato durante i mesi passati in isolamento.
Chi ha lottato per i diritti umani spesso ne ha pagato le conseguenze: cos’è successo il 18 di maggio 2013?
Ero a casa, ero tornato da una delle comunità che si trovano sulle montagne intorno a Oaxaca, dove stavo lavorando a un progetto produttivo. Tra mezzanotte e l’una ha fatto irruzione in casa mia un gruppo armato, senza identificarsi, senza un mandato d’arresto. Dopo avermi immobilizzato mi hanno trascinato via con gli occhi bendati. Mi hanno portato in un posto, non ho mai saputo dove.
Per 30 ore nessuno ha più saputo nulla di me, ero desaparecido, scomparso. In quelle 30 ore mi hanno sottoposto a torture fisiche e psicologiche. Un’aggressione “a tutti i sensi”, ma attuata in maniera così scientifica da non lasciare neanche un’impronta sulla vittima, così quando poi ti portano in carcere il medico che ti visita nel suo rapporto scrive “integro e in buono stato di salute”. Un esempio? Il soffocamento con la borsa di plastica, le scariche elettriche – ci sono modi di darle senza lasciare tracce – e anche i colpi sulla pianta dei piedi.
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Quando l’hanno portata via, le hanno spiegato il motivo?
All’inizio no, ma poi è venuto fuori che, attraverso me, volevano colpire altri attori del movimento sociale di Oaxaca, volevano che incolpassi i dirigenti del movimento di lotta contro la riforma educativa di quegli anni, la dirigenza della sezione 22 del Cnte (Coordinamento nazionale dei lavoratori dell’educazione, ndr). A un certo punto mi hanno detto: «Se ci dici che quei tre sono i leader della banda, ti lasciamo andare». Questo è stato il livello di coercizione. Io non ho ceduto e per questo ho passato 5 anni e 7 mesi in prigione.
Ha deciso di denunciare le torture subite. Non temeva per la sua sicurezza?
Per me il silenzio non è mai stata un’opzione. Soprattutto se si lotta contro l’impunità, l’ingiustizia, la corruzione, il silenzio non può essere un’opzione. I rischi esistono sempre e non vanno certo a diminuire se decido di starmene zitto.
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Quando e perché è iniziata la criminalizzazione dei difensori dei diritti umani in Messico?
Alla fine del 2012 era diventato presidente del Messico Enrique Peña Nieto. Oltre a radicalizzare il processo di privatizzazione iniziato negli anni ’80, Nieto ha avviato una serie di riforme neoliberiste, tra cui quella del sistema educativo. Definirla riforma, per me, è un eufemismo. Più che sull’istruzione, incideva sul lavoro. L’obiettivo era colpire il magistero, da cui era emerso il movimento di lotta e, di conseguenza, disarticolare la resistenza dei maestri oltre ai diritti degli stessi lavoratori.
Ma la cosa più grave è che si stava aprendo una breccia per avviare la privatizzazione dell’educazione pubblica. Quando la riforma fu approvata, alla fine del 2012, suscitò molte polemiche ma anche proteste – in alcuni casi violente – come a Guerrero e a Oaxaca. Fu a quel punto che iniziò il processo di criminalizzazione nei nostri confronti. Fu il primo atto repressivo di Peña Nieto. Da un lato il governo cercò di isolare e reprimere il movimento degli insegnanti, ma il vero obiettivo era quello di delegittimare la lotta.
E ha funzionato?
Forse, all’inizio, i cittadini comuni hanno creduto che fossimo noi ad essere nel torto. Ma chi conosceva il nostro lavoro non ha mai dubitato della nostra innocenza. A tal punto che anche il movimento femminista di Oaxaca si è schierato dalla mia parte, rompendo lo schema della lotta per i diritti delle donne focalizzata solo sulla difesa dei diritti delle donne. Facendo così le compagne, oltre ad aver fatto saltare un modello, hanno voluto dimostrare a tutti che la criminalizzazione dei difensori non era casuale, ma uno schema premeditato dallo Stato.
Lei non è solo un insegnante, ma anche un difensore dei diritti dei popoli indigeni.
Dopo aver preso la laurea, ho iniziato a lavorare nella scuola pubblica, ma dopo due anni mi sono licenziato per provare a creare un sistema educativo che andasse incontro alle necessità delle comunità indigene. Questo perché percepivo che gli strumenti che avevo a disposizione non erano pensati per rafforzare gli indigeni, ma piuttosto per distruggerli, per indebolire il tessuto sociale, perché il modello educativo è di tipo coloniale e cerca di rendere il più omogenea possibile la società messicana. Riproduce un’ideologia e una pratica egemonica, per esempio colpisce uno dei pilastri fondamentali della cultura, che è la lingua. Per tutto questo ho iniziato a pensare che fosse necessario generare un’alternativa che potesse essere una risposta della nostra lotta, almeno in questo ambito.
Perché Peña Nieto ha cercato di smantellare la scuola pubblica?
Ho anche organizzato scuole politiche dentro al sindacato degli insegnanti perché ritenevamo, io e i miei compagni, che i maestri dovessero acquisire gli strumenti adeguati, perché sono la congiuntura tra il mondo della scuola (educazione) e il mondo del lavoro (produzione). La loro forza è radicata nella capacità di articolare diversi spazi. Sono un punto di riferimento per le comunità, hanno un ruolo importante nel sindacato e sono presenti su tutto il territorio. Ecco spiegato il motivo per cui sono sempre stati visti con sospetto dallo Stato. Me compreso.