Olio di palma: lo “sviluppo insostenibile” delle piantagioni in Camerun
Violenze sulle donne, corsi d’acqua inquinati, siti sacri distrutti e conflitti fondiari. L’ong ReAct pubblica un rapporto sulle promesse mancate della compagnia belgo-lussemburghese Socfin nelle piantagioni di palma da olio in Camerun
In Camerun le guardie a protezione delle piantagioni di palma da olio sono accusate di violenze e minacce. Le vittime di abusi spesso sono donne. Nel mese di giugno Synaparcam, l’organizzazione camerunese per i diritti delle popolazioni locali coinvolte nei progetti di agribusiness, ha documentato la protesta di alcuni abitanti di un villaggio contro gli abusi degli agenti privati della sicurezza.
In particolare, sono finite sotto la lente delle ong le piantagioni che appartengono alla multinazionale belgo-lussemburghese Socfin. L’azienda, posseduta al 38,7% da Vincent Bolloré e al 54,24% dall’uomo d’affari belga Hubert Fabri, opera in dieci paesi in Asia e Africa nel campo della palma da olio e alberi della gomma su circa 200.000 ettari.
Olio di palma: in Camerun attive Socapalm e Safacam
In Camerun una delle società collegate a Socfin è Socapalm, che si occupa della produzione e trasformazione di olio di palma su circa 34.000 ettari. L’area della concessione, rinegoziata nel 2005, è molto più ampia: raggiunge i 58.000 ettari, distribuiti su sei località.
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Socapalm non è l’unica controllata di Socfin in Camerun. Safacam è stata acquisita nel 2014. Le piantagioni si espandono su circa 15.000 ettari. Secondo i dati forniti da Socfin, circa il 60% dell’olio di palma di origine camerunese proviene dalle sue piantagioni.
Ambiente e danni a popolazioni: l’accusa di sviluppo “non sostenibile”
Nel mese di maggio 2019, l’ong francese ReAct ha pubblicato un rapporto dal titolo “Sviluppo insostenibile” dedicato a Socfin e al suo operato in cinque paesi: Liberia, Camerun, Costa d’Avorio, Cambogia e Sierra Leone.
Lo studio mette a fuoco i problemi sollevati dalla popolazione locale, che non hanno ancora trovato una soluzione. Il documento riporta le voci e le testimonianze delle comunità su tematiche che spaziano dai danni ambientali a quelli economici e sociali. L’ong ReAct dichiara di non aver ancora ricevuto repliche o risposte né dalle compagnie camerunesi Socapalm e Safacam, né da Socfin.
«Nulla è cambiato sul campo» dice a Osservatorio Diritti Eloïse Maulet, autrice del rapporto e membro dell’ong francese ReAct.
«Le popolazioni locali denunciano la mancanza di azione, anche perché il Camerun avrebbe dovuto essere, secondo il piano di Socfin, uno dei paesi prioritari per i cambiamenti annunciati dall’azienda», spiega Eloïse Maulet, che si trova a Douala, in Camerun.
La ricercatrice fa riferimento al rapporto 2018 sullo sviluppo sostenibile, pubblicato dall’azienda. Socfin, nel documento, sostiene di aver certificato il 37% della produzione con la tavola rotonda per l’olio di palma sostenibile (Rspo) e di voler raggiungere il 100% entro il 2021. Sottolinea di aver aggiornato il proprio codice etico e di aver aumentato i controlli.
Produzione di olio di palma: la denuncia delle comunità
«Non è stata prevista alcuna misura di limitazione dell’impatto ambientale delle piantagioni», accusano le testimonianze raccolte da ReAct. Le acque di scolo delle fabbriche di trasformazione dei frutti della palma, infatti, secondo Eloïse Maulet sono mal funzionanti quasi ovunque:
«In alcuni casi è da due anni che popolazioni denunciano la questione e fino ad oggi non c’è stato alcun cambiamento ».
Nel rapporto di ReAct si legge che le acque di scolo finiscono per inquinare corsi d’acqua utilizzati dagli abitanti per attività economiche e domestiche. Socfin nel suo documento parla di lotta agli sversamenti accidentali e della realizzazione di luoghi di stoccaggio idonei, senza specificare, però, le misure adottate in ciascuna piantagione.
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Olio di palma e deforestazione: siti sacri distrutti
«La Synaparcam si sta battendo in questo periodo per la protezione dei siti sacri e la restituzione di queste aree alle comunità locali», sottolinea la ricercatrice di ReAct. Che aggiunge:
«La piantagione, al momento della sua installazione e successivamente, ha distrutto zone dove erano stati seppelliti gli antenati, alberi intorno ai quali la comunità si ritrovava per eseguire dei riti tradizionali».
La popolazione chiede di poter accedere nuovamente ai siti, di poter piantare nuovi alberi.
Violenze sulle donne nelle piantagioni di palma da olio
Nel mese di aprile 2019 è stata presentata una denuncia alla direzione generale della Socapalm e al meccanismo di trasparenza di Socfin. Il reclamo raccoglie una decina di casi concreti di donne che hanno subito violenze e aggressioni. Ad alcune vedove è stata sottratta la terra, ad altre donne sono stati sequestrati i frutti della palma, altre ancora sono state picchiate o minacciate.
In una delle piantagioni si è svolta una protesta contro la presenza di militari a guardia degli impianti.
«La militarizzazione ha accentuato le violenze alle quali le donne possono essere sottoposte, soprattutto quando trasportano i frutti delle loro palme e li trasformano artigianalmente», spiega Eloïse Maulet.
Le donne hanno subito anche l’occupazione delle zone umide, da parte della compagnia. L’ampliamento delle piantagioni, infatti, ha spesso inglobato anche aree tradizionalmente coltivate dalle donne. «Le proteste hanno sortito effetto perché la compagnia ha smesso di sfruttare le zone umide in Camerun», sottolinea la ricercatrice.
Conflitti fondiari e restituzione delle terre incompiuta
ReAct ha registrato un aumento dei conflitti basati sul tribalismo. «Sono cresciute le dispute fondiarie per la mancata restituzione di alcuni terreni e per la presenza di occupanti estranei ai villaggi». Nel 2005, infatti, in seguito ad una modifica del contratto iniziale, circa 20.000 ettari avrebbero dovuto essere restituiti alla gestione locale della terra. Socfin nel 2017 ha pubblicato le cartine che indicano gli spazi restituiti, ma le misurazioni sul campo, effettuate in modo partecipativo, hanno fatto emergere numerose criticità.
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«Le comunità locali chiedono di poter accedere a terre libere perché gli spazi per coltivare sono molto limitati», sottolinea Eloïse Maulet. Secondo le testimonianze locali, infatti, le aree restituite spesso non sono coltivabili. In alcuni casi si trovano lungo le rive dei corsi d’acqua, in altri sono occupate da soggetti esterni alla comunità. «A volte ci sono piante di palma delle compagnie o campi destinati ai loro lavoratori», afferma.
Dialogo interrotto con le istituzioni
Dal giugno 2017 i ministeri dell’amministrazione territoriale e degli affari fondiari hanno messo in piedi un gruppo di lavoro per risolvere il conflitto tra Socapalm e le comunità locali. «All’interno del gruppo ci sono rappresentanti delle amministrazioni locali, dei ministeri, della Socapalm ma nessuno delle comunità locali», sottolinea la ricercatrice di ReAct.
A questo si aggiunge scarsa trasparenza sui risultati del lavoro di indagine, spiega Eloïse Maulet: «Sono passati più di due anni, ma non ci sono state comunicazioni. Manca la trasparenza sulle riunioni e sulle ricerche realizzate».