Bir-Well, la storia dei desaparecidos curdi nel documentario di Altay

Negli anni '90, in Kurdistan, sono sparite migliaia di persone. Bir (Well), il film di Veysi Altay, è la storia di cinque uomini e due bambini arrestati, torturati e poi scomparsi dalla città di Kerboran nel 1995. E dell'ostinazione delle loro famiglie nel voler ritrovare i corpi per avere almeno una tomba su cui piangere

BÎR (Well), il film sul Kurdistan di Veysi Altay, trasmesso il 4 maggio scorso anche al Festival dei diritti umani di Milano, ricostruisce la vicenda di sette persone, tra cui due bambini, arrestate, torturate e poi fatte sparire dalla città di Kerboran nel 1995. Ma anche delle loro famiglie, la maggior parte delle quali, per quasi 20 anni, non hanno saputo che fine avessero fatto i loro mariti, padri, figli, fratelli.

Il regista ha scavato con l’occhio della memoria nei pozzi dove si dice che le forze paramilitari, con la connivenza di quelle statali, abbiano gettato i loro corpi. Lo ha fatto per riportare alla luce la storia di questi desaparecidos. Una ricerca instancabile delle spoglie da parte dei familiari, sospesi nell’incertezza di una morte mai annunciata.

Un film sul Kurdistan: la storia di sette desaparecidos

Loro erano Suleyman Seyhan, 57 anni, Seyhan Dogan, 13 anni, Emin Aslan, 19 anni, Abdurrahman Coskun, 21 anni, Abdurrahman Olcay, 20 anni, Davut Altinkaynak, 13 anni, Nedim Akyon, 16 anni. La loro unica colpa, quella di essere curdi. L’accusa ufficiale è di aver sostenuto il Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan.

Ricorda Hediye Coskun, madre di Abdurrahman:

«Erano le tre del mattino, quando qualcuno ha bussato alla porta. Ho chiesto “Chi è?”. Mi hanno risposto in turco: “Aprite la porta”. Avevano circondato la casa. Sono entrati e sono andati dritti da Abdurrahman. Ho pensato che lo conoscessero. Lo hanno ammanettato, faceva caldo quella sera, lui era in mutande. Io piangevo disperata. “Dove lo state portando così?”. Uno dei soldati mi ha colpita al petto con l’impugnatura del fucile e io sono caduta per terra. Lo hanno fatto rivestire e lo hanno portato via. Quella è stata l’ultima volta che l’ho visto».

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Immagine del film Bir (Well) di Veysi Altay)

Saturday Mothers a Istanbul contro le sparizioni forzate

Come dice Hediye Coskun, il suo dolore è uguale a quello di tutte le altre, se lo ripete forse per sentire meno male. Le altre sono madri come lei, che hanno visto sparire, da un giorno all’altro, i propri figli. Sono le Saturday Mothers, che, ormai da quasi trent’anni, si ritrovano tutti i sabati in piazza Galatasaray a Istanbul, per protestare contro le sparizioni forzate dei loro parenti. Per chiedere giustizia a un’istituzione che sembra non avere alcun interesse a dare risposte. I sette di cui parla Altay sono, infatti, una goccia nel mare di uomini e donne arrestati, torturati e fatti sparire in Kurdistan negli anni ’90 dai gruppi paramilitari, come Jitem e Hizbul-Kontra.

«Questo Stato non ha una coscienza. Noi vieniamo qua da tanto tempo ma nessuno si è chiesto “Perché queste persone sono qua?” Pensano che veniamo qui a ballare? Che siamo qui per divertirci? No, siamo qui perché i nostri cuori sono a pezzi».

Rimbomba una voce su una carrellata di mani che sostengono centinaia di foto di volti in bianco e nero e di garofani rossi.

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Censura turca: arrestato il regista del film sul Kurdistan

I loro assassini hanno eliminato i corpi gettandoli dagli elicotteri o seppellendoli nei pozzi. Migliaia di persone uccise, senza che i diretti responsabili siano mai stati condannati per le atrocità commesse. E senza che venisse istituita un’indagine seria per accertare la verità.

In casi simili si è parlato di genocidio. In Turchia non c’è stato spazio per questo termine. Un’infelice “usanza” giunta fino ai giorni nostri, come dimostrano gli oltre 100 giornalisti finiti in prigione dopo il tentato golpe del 2016 per destituire il presidente Recep Tayyip Erdoğan. Lo stesso Altay, che è anche fotografo e attivista per i diritti umani, a febbraio è stato arrestato e condannato a due anni di galera con l’accusa di presunte “attività terroristiche” per il suo film “Nû Jîn”, sulla storia delle donne combattenti curde.

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Pozzi d’acqua trasformati in buche della morte

I dintorni collinari di Kerboran assomigliano a una sassaia. Le persone quasi si mimetizzano con le pietre gialle e la terra ocra. All’orizzonte imperano verdeggianti montagne, da dove s’intuisce che arriva l’acqua che alimenta i pozzi disseminati sul terreno. Da questi una volta si rifornivano gli abitanti e i pastori. Oggi è vietato. C’è chi dice che per sciogliere i corpi sia stato gettato dell’acido, alcuni sono stati cementati.

L’accusa dei curdi: esercito e politici sono responsabili

Mehmet Coskun, fratello di Abdurrahman, ne è certo:

«È stato l’esercito ad addestrare queste persone (i paramilitari, ndr) e a spedirle qui. Allo stesso tempo non c’è nulla che l’esercito possa fare di propria iniziativa, sicuramente i parlamentari ad Ankara erano al corrente di quello che stava succedendo da queste parti».

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Mehmet Coskun, fratello di Abdurrahman (Immagine tratta dal film BÎR (Well) di Veysi Altay)

La vendetta si è consumata negli anni, consumando anche chi ha aspettato per tanto tempo di avere almeno una tomba su cui piangere. «Mio fratello è stato in questa pozzo per 18 anni, questo buco ha rovinato ciò che di buono c’era nella mia mente e nel mio cuore».

Un film su un’ostinata speranza, un film sul Kurdistan

Nel documentario sono i parenti a parlare, a raccontare la propria personale battaglia, stagione dopo stagione. Ricerca dopo ricerca. Il tempo è scandito dalla loro speranza, che va a corrente alterna.

A volte è più forte, come quando lo Stato ha ufficialmente dato il permesso per procedere con gli scavi. A volte più affievolita, come quando si rendono conto che quell’indagine era più un lavarsi la coscienza che la ricerca della verità, come spiega la professoressa Sebnem Korur Fincanci, attivista per i diritti umani e medico forense. Ma il fatto è che non si spegne mai. Come dimostra l’ostinazione della madre di Abdurrahman.

Bir Well: il trailer del film


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