Guerra in Libia: dopo due mesi di scontri, si amplia il fronte del conflitto
Il vincitore della guerra in Libia non sarà decretato dalle operazioni militari. Non c'è modo che qualcuno primeggi. La guerra sembra senza fine. E ai colpi di arma da fuoco si aggiunge il conflitto economico tra Tripolitania e Cirenaica
Da guerra-lampo a guerra senza fine. È stallo in Libia. Il Generale Khalifa Haftar si aspettava una cavalcata senza intoppi fino alla capitale Tripoli. L’uomo forte della Cirenaica, la parte orientale della Libia, aveva cominciato l’avanzata militare con il placet dei suoi numerosi alleati: quelli “dichiarati” (Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Egitto, Russia) e quelli “segreti” (Francia su tutti, anche se ormai lo schieramento è molto fluido, con gli Stati Uniti, ad esempio, che a volte lo sostengono e a volte no). Ora però il consenso intorno alla sua leadership sta scemando e anche tra chi tradizionalmente ha sostenuto Haftar ci sono delle riserve sull’avanzata verso Tripoli.
Dopo quasi due mesi di combattimento, quest’impasse sul piano militare sta moltiplicando i fronti del conflitto: sono in corso in contemporanea una guerra diplomatica, una cyberwarfare (guerra d’informazioni online) e una guerra economica per il controllo di banche e risorse naturali.
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Niente soluzione militare per la guerra in Libia oggi
Per l’Esercito nazionale libico (Eln) di Haftar e per il Governo di accordo nazionale (Gna) di Fayez al-Serraj quella in corso è una guerra di sopravvivenza. Scendere a patti per una tregua è complicato. L’intermediazione delle Nazioni Unite, il cui rappresentante in Libia, per altro, è tra le parti in conflitto, non ha finora contribuito in modo definitivo per raggiungere un cessate-il-fuoco. Lo scenario più cupo che si delinea all’orizzonte è quello di una guerra infinita, fino all’annientamento di una delle due parti. Un costo insostenibile per la Libia.
«Non c’è una soluzione militare in Libia. Non è un cliché. È un fatto. Ed è giunto il momento per coloro che avevano covato quest’illusione di aprire gli occhi e adattarsi alla realtà».
Ghassan Salamé di illusioni è, suo malgrado, un esperto. Da inviato Onu è stato messo nelle condizioni di dover far credere alla comunità internazionale che a Tripoli ci fosse un vero governo. Non è mai stato così. Serraj è stato al massimo in grado di controllare la capitale, come spiegato da analisti come Jalel Harchaoui quasi un anno prima dell’inizio del conflitto.
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La corruzione ha minato il governo Serraj fin dall’inizio. La conversione di milizie ribelli in pezzi di Stato ha reso impossibile la costruzione di un governo stabile. Hanno sempre prevalso gli interessi particolari. Tripoli dalla sua aveva solo la capacità di spesa. Due miliardi di dinari (circa un miliardo e mezzo di dollari) sono stati spesi solo per le prime tre settimane di guerra dal Gna. L’economia del Paese versa in condizioni difficili: il debito è pari al 143% del Pil in questo momento.
È altrettanto un’illusione pensare che Haftar sia stato in grado di costruire un vero esercito. L’Eln è un composito insieme di mercenari: militano pezzi del Sudanese liberation army (Sla) e del Justice and equality movement (Jem), due gruppi armati attivi nella guerra del Darfur, da sempre presenti intorno a Sebha, in Libia. Il panel di esperti del Consiglio di sicurezza dell’Onu ha indicato la presenza anche di ciadiani appartenenti al Front pour l’alternance et la concorde au Tchad (Fact), forza di opposizione al regime di Idriss Déby che dal 2016 conta dell’appoggio di forze della Cirenaica oggi alleate di Haftar. Il corpo di élite dell’armata di Haftar si chiama Sa’iqa (o Battaglione Fulmine), davanti alla Corte penale internazionale per crimini di guerra già commessi nel 2014.
Nonostante questo, rispetto al governo di Tripoli ha saputo costruirsi una propaganda migliore: ha fatto passare l’idea, sia dentro sia fuori dai confini nazionali, che non esista argine al terrorismo al di fuori di Haftar. Il CeSI, Centro studi internazionali, a inizio maggio ha pubblicato anche un report che indicava un’anomala attività online di siti riconducibili sempre a un ristretto giro di indirizzi IP e proprietari. Segnali allarmanti che facevano pensare a un’offensiva sulla rete per indurre la popolazione a sostenerlo.
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Il conflitto più imprevedibile, però, resta quello economico. L’International crisis group lo spiega nel report Of tanks and banks (Di carri e banche). Le cause profonde vanno cercate nel 2014, quando sostanzialmente la Libia si è divisa con il governo riconosciuto dall’Onu a Tripoli e il parlamento eletto a Tobruk, senza esecutivo.
La Banca centrale ha cercato di estromettere dal circuito dei pagamenti la parte orientale del Paese, per tenere per sé gli introiti provenienti dal commercio di petrolio, che rappresenta l’enorme maggioranza dei ricavi della Libia, e per evitare che Haftar avesse più soldi per pagare i suoi soldati.
Nonostante questo, la banca commerciale libica ha concesso dei prestiti e nel 2015 il parlamento di Tobruk ha anche ottenuto dei bond libici che l’hanno tenuto in vita sul piano finanziario. Si
sono così venuti a creare due sistemi finanziari paralleli, con una nuova Banca centrale per l’est a Benghazi, “capitale” di Haftar. In questo scenario, si è istituzionalizzato un mercato nero delle valute estere e si sono costruiti più tassi di cambio. Una guerra bancaria tra est e ovest del Paese.
La difficoltà di accedere al credito e ai fondi aurei della Banca centrale diventano così una spiegazione delle offensive, a partire dal 2016, nella regione della Mezzaluna del petrolio (Oil Crescent), così chiamata perché bacino principale di pozzi petroliferi. Qui Haftar ha sempre cercato di mantenere attiva la produzione, per quanto possibile. Dalla fine di aprile 2019 Haftar ha messo delle sue navi al porto di Ras Lanuf, il principale sbocco marittimo dell’Oil Crescent, per poterne mantenere il controllo.