Attraverso i nostri occhi: i bambini raccontano la vita nell’hotspot di Samos
Una mostra fotografica dà voce ai bambini che vivono nell'hotspot di Samos, in Grecia. Foto che raccontano cumuli di spazzatura in ogni dove, container sovraffollati e lotte quotidiane per il cibo. L'esposizione, "Attraverso i nostri occhi", resta aperta a Torino fino all'1 giugno
Si intitola “Attraverso i nostri occhi” o se vogliamo dirla all’inglese, “Trough our eyes”, la mostra aperta al Palagiustizia di Torino fino all’1 giugno. Un’esposizione sul mondo dei migranti diversa dal solito. Perché a raccontare cosa succede dentro l’hotspot dell’isola greca di Samos, ormai al collasso, non sono persone esterne, come giornalisti o fotoreporter, ma chi lo vive ogni giorno: i bambini profughi del campo.
Con foto che hanno quella vividezza tipica di chi sa non per sentito dire, ma perché lo prova sulla propria pelle.
L’iniziativa nasce dentro un progetto molto più ampio portato avanti dalla ong italo-greca Still I Rise, fondata nel 2018, che ha come obiettivo primario quello di offrire educazione e protezione proprio ai minori rifugiati a Samos.
L’orrore dell’hotpost raccontato dalle foto dei bambini
Con questo intento, infatti, è nato il centro Mazì, dentro cui ha preso vita il corso di fotografia condotto da Nicoletta Novara, suddiviso in 7 moduli: storia della fotografia, ritratto, movimento, utilizzo della luce, bianco e nero, street photography ed editing.
«Come prova finale, ho chiesto agli allievi, di età compresa tra i 12 e i 17 anni, di mostrarmi la loro vita fuori dalla scuola, tutto quello che noi insegnanti, ma neanche altri, possiamo vedere perché l’accesso è vietato. Abbiamo dato loro una Kodak usa e getta e chiesto di fermare in degli scatti quello che vedono attraverso i loro occhi», racconta Nicoletta, volontaria, oltre che ideatrice della mostra insieme a Nicolò Govoni, co-fondatore della ong e che, prima di dedicarsi a questo progetto, ha lavorato come fotografa e giornalista.
Il risultato sono 200 scatti a colori, stampati in formato 10 x 15 cm. frutto della personale rielaborazione degli studenti e dell’applicazione delle tecniche fotografiche apprese a lezione.
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“Food no good friend”: code e risse per avere il cibo
Diversi i temi ricorrenti:
«Il cibo è protagonista di molte immagini, quello che dicono spesso i ragazzi è “Food no good friend” (“Il cibo non è un buon amico”). Questo perché ha un cattivo sapore e ottenerlo non è facile.
Ognuno dei rifugiati ha diritto a 3 pasti al giorno, ma per averli bisogna affrontare delle code, chiamate “food line”, che si suddividono in quelle per minori non accompagnati e quelle per le famiglie. In alcuni casi, si può stare in fila anche per 4 ore di seguito e non è detto che alla fine riesci a mangiare».
Prosegue Nicoletta: «Ci sono studenti che dormono davanti alla coda per arrivare primi e, a causa di attese interminabili e appostamenti estenuanti in ogni condizione climatica, succede che chi è in fila litighi verbalmente o venga alle mani. Non è tanto una questione di inciviltà, quanto una lotta per la sopravvivenza per ottenere quel poco che consente loro di andare avanti».
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Tende sovraffollate e una doccia per 200 persone
Nelle fotografie emergono anche le condizioni delle tende e dei container dove vivono in 8 persone quando al massimo ce ne potrebbero stare 2. Al loro interno stanze squallide, sporche, «sebbene alcuni dei ragazzi cerchino di abbellirle con qualche luce colorata», precisa Nicoletta.
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E poi bagni comuni, indecenti, «sporchi e tutti rotti. Ci hanno raccontato che all’interno ci si picchia per avere l’acqua o per farsi la doccia e che il modo migliore per farla in tranquillità è all’una di notte. Ma capisci bene che per una ragazzina sola, per esempio, quello è un orario tutt’altro che consigliato».
Si stima che dentro l’hotspot ci sia una doccia per 200 persone.
Non è comunque solo una questione di spazi ristretti, ma «d’inverno è sempre tutto allagato e i campi sono infestati dai ratti in ogni angolo», spiega Nicoletta. «I ragazzi nelle loro foto hanno mostrato come anche la presenza di gatti, che fa molto piacere ai profughi perché idea comune è che possano mangiarsi i topi, non cambia nulla: gli stessi felini ne hanno paura».
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Nelle immagini sono protagonisti anche cumuli di spazzatura che si possono vedere in ogni dove e che fanno capire anche altro:
«L’hotspot di Samos sembra lavorare sul filo sottile dell’annientamento umano, piuttosto che sul fronte dell’accoglienza. I nostri studenti combattono ogni giorno una battaglia personale di resistenza contro un sistema che non li percepisce come esseri umani in una condizione di fragilità, quanto piuttosto come un’entità scomoda e non degna di far parte della società civile, né di avere quei diritti che ogni essere umano dovrebbe avere», conclude Nicoletta.
La situazione fuori dal campo di Samos
E se questa è la situazione al campo, non va meglio fuori, dove si ammassano tutti coloro che dentro l’hotspot non riescono ad entrare. «Chi vive al di fuori non ha né acqua né luce e ogni giorno, per potersi lavare e bere, deve riempire enormi secchi e portarli nelle tende, ovviamente disperdendone non poca. Sono cose che io stessa ho visto con i miei occhi e di cui si parla davvero poco».
Tra gli scatti, anche foto di speranza di una vita migliore
Oltre a foto degli ambienti, tanti sono gli autoscatti che i ragazzi si sono fatti in vari punti del campo. Come a dire: «Ci metto la faccia, guardami, sono in questo posto e decido io come raccontarlo».
Ci sono poi foto “di speranza” che raccontano quello che c’è intorno all’hotpost.
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«La città, il mare, una foto di una donna in motorino. Questa può sembrare apparentemente banale eppure, come ci hanno detto, li ha colpiti perché nei paesi da dove vengono le donne non possono guidare gli scooter.
Un altro bambino, Omid, ha ritratto i genitori vicino al porto con il padre che dà il pane ai piccioni. È un’immagine importante, che mostra quello che i suoi genitori, molto innamorati, fanno ogni giorno: si prendono mezzora per uscire e staccare la testa. Un punto di vista molto interessante perché si pensa sempre ai bambini, ma anche i grandi soffrono, eccome», aggiunge l’ideatrice della mostra.
«Ed è una vita assurda: quando escono dal campo, lo sanno davvero poco prima: hanno un giorno e mezzo per salutare chi conoscono, raccogliere le loro cose e non sanno dove andranno una volta usciti da lì».
«Fotografare il campo mi ha dato la dignità come persona»
La mostra prima di arrivare in Italia è stata presentata proprio a Mazì, davanti a genitori e studenti, ma anche alla città. «Qualcuno ha preso la parola come Samaneh, 16 anni, che ha spiegato come quando stava al suo paese usasse già la macchina fotografica e che poi aveva dovuto lasciarla alle spalle. “Fotografare il campo” ha detto “è descrivere la mia vita perché nessuno capisce cosa provo in queste condizioni. Poterlo raccontare attraverso la fotografia mi ha dato la dignità come persona”».
Anche se la mostra non ha avuto la partecipazione che gli ideatori si sarebbero aspettati: «La gente preferisce girare la testa dall’altra parte».
In ogni caso, per i ragazzi del campo questa, come altre attività della ong, sono un modo per avere educazione, un luogo sicuro e anche dei pasti sicuri. E tutto ciò perché le strutture governative, conclude Nicoletta, «prevedono attività per bambini fino agli 11 anni, per chi viene dopo non c’è più niente. Insegniamo inglese, greco, matematica, computer, chitarra, arte, un modo per prepararli alla vita fuori, anche se non si sa dove e quando andranno via».
La mostra, dopo Torino, dovrebbe arrivare a Bologna.