Pfas: in Veneto l’acqua contaminata fa temere per la salute

Ecco la seconda puntata dell'inchiesta di Osservatorio Diritti sui Pfas. Chiarito cosa sono queste sostanze che in Veneto hanno già avvelenato le province di Verona, Vicenza e Padova, per un totale di 350 mila persone, indaghiamo ora sui rischi per la salute collegati all'acqua e agli alimenti contaminati. Ne abbiamo parlato con scienziati, abitanti della zona e agricoltori

In Veneto sta succedendo qualcosa di strano. Esistono gruppi di cittadini che non mangiano più quello che viene prodotto vicino a casa per paura di ammalarsi. I piccoli agricoltori ammettono a bassa voce che no, i filtri per depurare l’acqua non ce li hanno e non potranno averceli, perché costano troppo. I medici dicono che ci sono aree tra Verona, Vicenza e Padova in cui mangiando anche una sola braciola di un maiale cresciuto in zona si superano i “limiti di tollerabilità giornalieri” di Pfas, una sostanza che ha già contaminato 3 province, 80 comuni e 350 mila persone.

E nel frattempo la mole di studi scientifici che conferma tutte queste preoccupazioni si amplia: i Pfas avvelenano l’acqua, sono causa di gravi patologie ed è urgente analizzare quello che mangiamo, per conoscere i pericoli che sta correndo la popolazione e decidere come intervenire. Ad essere più a rischio, come spesso avviene in casi del genere, è innanzitutto la salute dei bambini, come denunciano ormai da troppo tempo le Mamme No Pfas.

La prima puntata dell’inchiesta:
Pfas, il veleno nel sangue: cosa sono, acqua contaminata e danni alla salute

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Foto: Mamme No Pfas

Pfas: c’è bisogno di informazioni chiare sugli alimenti

Cittadini e operatori sanitari denunciano una mancata chiarezza nella comunicazione dei dati e dei limiti, soprattutto per quanto riguarda l’assunzione dei prodotti locali. Se l’Istituto superiore di sanità e la regione Veneto infatti non lanciano l’allarme per i cibi, i residenti hanno smesso di comprare ortaggi e carne a chilometro zero.

«I Gruppi di acquisto solidale (Gas) della zona hanno deciso di sospendere l’acquisto di prodotti locali finché non sarà data la georeferenziazione di tutti i prodotti», dice Elisabetta Donadello, referente per il Gas di Creazzo (Vicenza) e residente nella zona arancione, cioè in territori in cui sono presenti Pfas non nella falda, ma nell’acquedotto.

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Mancano i filtri per depurare l’acqua

Molti produttori non si sono ancora allacciati all’acquedotto filtrato con carbone attivo a causa dei costi troppo alti. Il cambio di irrigazione, dal pozzo privato all’allacciamento alla conduttura destinata alla agricoltura, è infatti a carico delle singole aziende, che non sono state finora obbligate a modificare la propria fonte di approvvigionamento. Claudio Zambon, viticoltore di Vicenza, spiega così la situazione:

«Le grandi industrie possono spendere 50 mila euro per mettere i filtri o allacciarsi all’acquedotto. Ma questa zona è fatta di piccoli produttori, che dovrebbero sostituire i filtri ogni 6 mesi o pagare bollette molto alte. Nessuno ce la farebbe, se non con estrema difficoltà».

Salute di agricoltori a rischio: alti livelli di Pfas nel sangue

Allevatori e agricoltori, inoltre, sono i più esposti all’alta tossicità dei Pfas, come dimostra il monitoraggio fatto nella zona rossa di Lonigo e Sarego nella provincia di Vicenza, pubblicato dall’Istituto superiore di sanità s e condotto dalla Regione Veneto. Su un campione di 257 soggetti esposti, presi tra la popolazione generale, nei comuni di zona rossa e arancione, si è trovata una mediana di Pfoa nel sangue di 13,8 ng/ml, mentre per i 122 agricoltori esposti la mediana arriva a 40,2 ng/ml, con un picco di 159 ng/ml per allevatori e agricoltori. Numeri venti volte superiori ai limiti fissati a 8 ng/l.

«Poiché generalmente questi lavoratori bevono l’acqua del proprio pozzo e con la stessa acqua irrigano i campi o abbeverano le bestie che allevano, e inoltre generalmente è molto probabile che si cibino dei propri prodotti agricoli e zootecnici, lo studio pone in evidenza la gravità della situazione del settore agricolo/alimentare, non solo per chi produce alimenti in zona rossa, ma anche, evidentemente, per chi quei prodotti acquista e consuma», dice il dottor Francesco Bertola, medico dell’associazione Medici per l’ambiente Isde che, sebbene in pensione, lavora per sensibilizzare la cittadinanza su questo tema.

La lotta dei lavoratori residenti e la posizione di Coldiretti

L’azienda agricola a conduzione familiare Barakà si trova nella zona arancione a Sovizzo, in provincia di Vicenza, e vende carne al dettaglio. Nel settembre 2016, dopo un primo controllo della Asl locale, aveva deciso di far analizzare i propri prodotti, ottenendo dei risultati al di sotto dei limiti di Efsa. «Non ci sono bastate le analisi dell’Asl, abbiamo voluto approfondire e capire se il nostro pozzo fosse inquinato. È stata una spesa, ma ora siamo sereni», racconta Diana Fongaro.

Alcuni produttori denunciano la mancata presenza delle istituzioni e dei sindacati di categoria che li aiutino a certificare la salubrità dei lavorati. Si sentono abbandonati.

«Ci siamo mossi da soli, Coldiretti infatti non assiste nessuno, anzi ha una politica omertosa su questo grande tema dei Pfas», denuncia senza giri di parole Diana Fongaro.

Coldiretti, interpellata da Osservatorio Diritti, risponde a queste accuse dicendo che «Coldiretti per prima ha sollevato il problema della presenza di Pfas. A fine 2014 si è tenuto il primo incontro in sede provinciale a Vicenza con i responsabili dell’Arpav. Coldiretti sin da subito si è messa a disposizione delle istituzioni per campionature e analisi al fine di verificare la ricaduta sulle persone, sugli animali e sugli alimenti. Il senso di responsabilità degli imprenditori agricoli che forniscono cibo alla collettività viene prima dei loro stessi interessi. Sulla salubrità dei prodotti non si discute. In merito a questa vicenda gli agricoltori sono stati i primi a rimetterci, pur non avendo alcuna colpa».

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I Pfas sono stati trovati nei fiumi e nelle falde

Cibi a rischio Pfas: le richieste dei consumatori

Ma la paura e la diffidenza, nate e cresciute tra la prima scoperta del 2016 e ora, minano la fiducia dei consumatori. «Di Barakà ci fidiamo e continuiamo ad acquistare lì, ma non tutti i produttori possono permettersi certe spese. Alcuni allevatori, che poi rivendono latte alle grandi centrali vicentine, hanno fatto alcuni accorgimenti, come attaccarsi all’acquedotto, anche se costa molto, oppure seminano colture che necessitino poca irrigazione, come il sorgo. Ma questo non basta, molti di loro comprano la carne di pollo da dare ai figli perché non si fidano della propria», spiega ancora Elisabetta Donadello.

Chi ha effettuato esami di laboratorio sui propri ortaggi, irriganti con pozzi privati spesso contaminati, ha ottenuto alti valori di Pfas negli spinaci o nei kiwi. «I singoli cittadini reagiscono alla totale assenza di un piano di protezione preventiva delle coltivazioni e degli allevamenti della zona inquinata: da anni richiediamo il coordinamento regionale per la fornitura di acqua senza Pfas per l’irrigazione perché solo recentemente, infatti, l’assessorato all’agricoltura si è cominciato a muovere – in realtà chiedendo fondi nazionali a riguardo. Chiediamo inoltre uno studio specifico per verificare se i diversi metodi di irrigazione possano dare benefici alle produzioni, chiediamo, senza avere alcuna indicazione, che siano attivati dei progetti specifici per la consulenza e il sostegno economico, azienda per azienda, necessario per superare tecnicamente il rischio di produzioni contaminate», dice Cristina Guarda, consigliera regionale nella lista Alessandra Moretti Presidente (Amp) e viticoltrice della zona arancione.

Le risposte di Regione Veneto, Governo e la sperimentazione dell’Arpav

La Regione Veneto ha risposto con la sperimentazione ambientale per la zona rossa dei laboratori accreditati di Verona e Venezia dell’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpav) per abbassare l’attuale indice di quantificazione, ossia la soglia tollerata nell’acqua, da 5 nanogrammi a 2 nanogrammi nelle acque potabili.

Inoltre, il governo nazionale ha prorogato fino al 21 marzo 2020 l’incarico a Nicola Dell’Acqua, commissario delegato per i primi interventi urgenti di Protezione Civile in conseguenza della contaminazione da sostanze perfluoro-alchiliche (Pfas). Un ruolo che finora ha gestito un ammontare di 1 milione e 400 mila euro per la sostituzione dei filtri che garantiscono acqua a Pfas zero nei territori compresi nella zona rossa.

Ma le Mamme No Pfas, i medici di Isde e le associazioni ambientaliste non si sentono rassicurati.

«Non ci hanno ancora consegnato la georeferenziazione delle zone agricole contaminate. Vogliamo sapere dove comprare e cosa mangiare, altrimenti continueremo a sentirci a rischio», insiste Elisabetta Donadello.

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Foto: Mamme No Pfas

Cosa sono i Pfas e dove si trovano: la mappa della contaminazione nel Po e tra Verona, Vicenza, Padova

I Pfas, sostanze perfluoroalchiliche utilizzate per impermeabilizzare stoffe, pelli e pentole, sono stati ritrovati nel fiume Po e nei territori delle tre province venete di Verona, Vicenza e Padova già nel 2010. La ricerca di questo materiale era stata commissionata al Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) dal ministero dell’Ambiente a seguito di una direttiva europea del 2006 che sancisce la pericolosità dei Pfas e ne vieta l’uso in quanto sostanze altamente inquinanti e tossiche per l’uomo.

Pfas: i composti Pfoa e Pfos nell’acqua di Vicenza

Nel 2013 i risultati delle quattro campagne di monitoraggio del Cnr (Progetto Pfas) hanno evidenziato un’alta percentuale di Pfoa e Pfos, i due composti più utilizzati della famiglia di Pfas, nelle acque idriche utilizzate nella provincia di Vicenza.

Nel bacino di Agno-Fratta Gorzone nel vicentino sono state scoperte concentrazioni che raggiungono valori di Pfoa superiori a 1.000 ng/Le di Pfas totale superiori a 2000 ng/L. Non essendo mai stati fissati dei limiti di tolleranza per la presenza in acqua di queste sostanze, e confrontando queste concentrazioni con i limiti proposti dall’Agenzia per la protezione dell’ambiente americana (400 ng/L per Pfoa), è stato sottolineato il rischio per la popolazione legato all’acqua contaminata.

Il significato della ricerca sui Pfas

Sara Valsecchi, ricercatrice e autrice della relazione finale, conferma oggi che «il risultato di questo lavoro è servito ad ampliare la legislatura sul grande tema dell’inquinamento. Con il decreto 172 del 2015 abbiamo dato delle linee guida sia per le acque dei fiumi, sia per la fauna ittica, che presenta alti valori di Pfas».

Una delibera della regione Veneto, obbligava già nel 2017 agricoltori e allevatori a verificare la salubrità dell’acqua, senza però demandare questa attività a un ente terzo e lasciando all’autocontrollo le analisi. In questo modo, però, è impossibile sapere se il produttore abbia fatto o meno il campionamento nel proprio pozzo.

Lo studio dell’Istituto superiore di sanità e il limite europeo

Nel 2008 l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) aveva ricevuto il mandato di stabilire dei limiti di presenza di Pfas negli alimenti. Un primo limite di tollerabilità giornaliero (Tdi) stabiliva a 150 ng/g per i Pfos e 1500 ng/g per i Pfoa.

Lo studio preliminare, aggiornato nel 2018, stabilisce invece un limite di assunzione giornaliera molto più basso, mille volte inferiore al primo limite. Il Tdi attuale è di 1,8 nanogrammi per chilo corporeo per i Pfos e 0,8 nanogrammi per chilo per i Pfoa.

Pfas e salute: le malattie e le analisi nei cibi

Efsa conferma come la presenza nel corpo di Pfas porti a malattie cardiovascolari, al sistema riproduttivo e alla difficile nascita di anticorpi. «Abbiamo ottenuto dalla Commissione europea di poter rivedere i limiti, puntando all’abbassamento della soglia. I dati comprenderanno anche altri composti di Pfas, così da estendere il monitoraggio e poter essere più specifici. Per il 2020 usciranno i risultati», spiega uno degli scienziati stranieri di Efsa intervistato da Osservatorio Diritti che ha chiesto l’anonimato.

A novembre 2017 l’Istituto superiore di sanità (Iss) aveva presentato i risultati di una valutazione preliminare relativa ad alcuni cibi e realizzata nelle fasce A e B della zona rossa, sia nei pozzi privati ad uso familiare, sia in quelli industriali. Erano state analizzate 12 molecole di Pfas, con una soglia di rivelabilità di 0,1 ng/g, identificando così il limite inferiore di concentrazione sotto il quale il campione non può essere rilevato o quantificato con sufficiente probabilità. Vennero esclusi diversi prodotti, come il vino, il latte e diversi ortaggi perché compresi tra 0,1 e 0,5 ng/g.

Pfas rintracciato in bovini, suini e uova

pfas negli alimenti
Braciole di maiale

Il limite venne superato invece dal fegato di bovini (concentrazione media di Pfoa 0,08 ng/g, con picco massimo di 2) e suini (concentrazione media 3,02 ng/g e il range<0,1-39ng/g) e dal muscolo di suino (concentrazione media 0,32 ng/g e il range di valori compreso fra <0,1 – 3,4 ng/g).

Vennero trovati valori alti di Pfos e Pfoa anche nelle uova (concentrazione media per le uova da autoconsumo 0,89 ng/g). Il lavoro dell’Istituto, realizzato prima dell’aggiornamento sui nuovi range di Efsa, utilizzò quindi i limiti non aggiornati, mantenendo così alta la preoccupazione sia dei medici, sia dei residenti.

«Secondo i nuovi valori di Tdi pubblicati, un ragazzo di 30 kg può introdurre al massimo 24 ng di Pfoa al giorno. In questo caso, anche se il ragazzo mangia una braciola di maiale con contenuto “medio”, avrà superato, solo con la braciola, la sua Tdi. Infatti 0,32 ng/g. di bistecca, per 100 g. (peso medio bistecca), danno 32 ng», spiega il dottor Francesco Bertola.

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