Khaled Khalifa: «In Siria non ci sarà pace senza giustizia»

"Morire è un mestiere difficile": partendo dal suo ultimo libro, Khaled Khalifa ha parlato di Siria, di Primavere arabe e del futuro ancora incerto di quell'area all'ultimo Festival dei diritti umani di Milano

«In Siria non ci sarà pace finché non sarà fatta giustizia». A dirlo è Khaled Khalifa, con la stessa persuasione di chi enuncia un assioma. Lo scrittore siriano è intervenuto a Milano in occasione del Festival dei diritti umani insieme alla giornalista Lucia Goracci, inviata di guerra per Rainews. Un incontro nato da uno spunto letterario, l’uscita in Italia del suo ultimo libro, “Morire è un mestiere difficile”, ma in cui si è parlato anche di geopolitica: delle Primavere arabe – passate, presenti e future – e della guerra in cui sta annegando la Siria, di cosa si aspettano i siriani, apparentmente non più padroni della propria terra né del proprio futuro.

Morire è un mestiere difficile, il libro di Khaled Khalifa

In un paese martoriato da otto anni di conflitto. In un paese dove si contano undici milioni di profughi e oltre 400 mila morti (anche se per alcuni potrebbero essere molti di più). In un paese dove ci sono più checkpoint che ospedali, come si legge tra le righe del libro di Khalifa. Dove il regime siriano è arrivato ad usare le armi chimiche contro la popolazione. Dove l’Isis aveva stabilito a Raqqa la sua capitale. In questo paese, recita il libro di Khaled Khalifa, “Morire è un mestiere difficile”.

Quello dello scrittore siriano non è romanzo di guerra ma una saga familiare, in cui il conflitto entra di rimbalzo nei finestrini del furgone su cui viaggia la salma di un defunto. Un padre. Morto “incredibilmente” di morte naturale. E che deve essere sepolto. Non ovunque. I figli lo vogliono riportare al villaggio dove è nato. «È una questione di onore». Guerra o non guerra.

Siria, un paese martoriato da otto anni di guerra

L'(auto)ironia che si coglie nel titolo è la stessa che si legge sul volto dell’autore. Per scrivere il libro, Khalifa ha preso spunto da un’esperienza reale, vissuta in prima persona. Era il 2013. Il conflitto era scoppiato da un paio di anni e stava attraversando un momento cruciale. L’esodo di massa che avrebbe portato in Europa circa cinque milioni di rifugiati era appena iniziato.

Il 21 agosto, nella regione della Ghouta, centinaia di civili erano morti di una morte atroce, per uno dei peggiori attacchi chimici degli ultimi 50 anni. La famosa “linea rossa”, tracciata nel 2012 dal presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, era stata superata. Ma gli Usa fecero dietro front: nessun intervento militare, nonostante ritenessero il regime di Damasco colpevole dell’utilizzo di bombe al gas sarin (accusa poi messa in discussione a giochi fatti da un rapporto del Massachussetts Institute of Technology).

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Bambini siriani davanti alla loro casa distrutta – Foto: Ryad Alhussein (via Pexels)

Khaled Khalifa: «Qui la guerra ha cambiato anche la morte»

Nel 2013 Khalifa ha un infarto e viene trasportato in ospedale.

«Quando ho iniziato a scrivere mi sentivo vicino alla morte. Il cadavere del padre sarebbe potuto essere il mio. Ovviamente, negli ultimi anni, mi è capitato spesso di essere molto vicino alla morte, non avendo mai lasciato il paese. Una volta lì, steso sulla barella, mi sono chiesto: “Cosa accadrebbe se morissi in questo momento?”».

La traccia essenziale del romanzo era già nella sua mente. «Mentre io ricevevo le migliori cure possibili da medici amici di famiglia, a soli 500 metri da me la guerra era nel suo pieno e c’erano bambini che morivano perché non riuscivano ad avere un antidolorifico. Al solo pensiero mi vergognavo, ma ho pensato anche alla mia famiglia. Al fatto che, se fossi morto, non avrebbero potuto in alcun modo trasportare la mia salma al villaggio dove ero nato, che si trovava a 400 km a nord di Damasco. In questo senso, la guerra ha cambiato anche la morte in Siria».

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«Guerra di guerre» e fallimento della decolonizzazione

Una guerra che sembra irrisolvibile perché è diventata «una guerra di guerre che ha polverizzato il territorio siriano», dice Goracci. Una non-fine imprevista otto anni fa, quando il 15 marzo del 2011 si sollevarono le prime voci contro il regime di Bashar al-Assad.

Per la giornalista, quello che è successo in Siria, ma anche in Egitto e in Tunisia, altro non è che l’esito naturale del fallimento della decolonizzazione. Il risultato del rapporto ambiguo che l’Occidente, paladino dei diritti civili, politici e umani, ha tenuto con le dittature arabe che, al contrario, hanno fatto della sistematica violazione dei diritti, una effimera garanzia di stabilità. Da qui nascono le Primavere arabe. Alcune sono fallite, altre stanno rinascendo, con esiti positivi, proprio in questi mesi. Si vedano il Sudan e l’Algeria.

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Carro armati distrutti di fronte alla moschea di Azaz, Siria – Foto: Christiaan Triebert (via Wikimedia)

Primavere arabe, le tre lezioni siriane

Khaled Khalifa è certo che «attraverso la distruzione della Siria si è voluto dare una lezione ai popoli arabi che si erano sollevati. La guerra siriana doveva essere un argine che contenesse questa ondata rivoluzionaria».

«In particolare, si è voluto lanciare un messaggio alle popolazioni degli stati del Golfo, come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar: “State buoni, altrimenti questo è quello che vi succede!”. Eppure abbiamo visto che tutta questa violenza non è servita a fermare i manifestanti».

La seconda lezione è che questi popoli, secondo alcuni, «non hanno il diritto di rivendicare la democrazia. È così che oggi ci troviamo di fronte a delle domande di cui non abbiamo risposta o che abbiamo persino paura di porre: «Chi ha costruito l’Isis, perché in questa forma e quale sarà la nuova veste che assumerà?».

Ma la vera lezione è che tutti questi sforzi sono stati vani perché, anche grazie al fallimento siriano, «i sudanesi e gli algerini hanno capito che le rivoluzioni sono processi, che sono varie le ondate che portano a un cambiamento reale». E lo stanno dimostrando.

Khaled Khalifa: «Io resto, dovete andarvene voi»

Per quanto riguarda la Siria, invece, lo scrittore vede difficile che nel suo futuro ci possa ancora essere Bashar al-Assad, ma per una considerazione meramente e tristemente materiale dei sui alleati. Il paese è distrutto. «Il costo per la ricostruzione è incalcolabile in questo momento. E assumerselo potrebbe essere troppo oneroso. In più siriani che hanno trasferito i propri averi, di certo non li riporteranno indietro fino a quando ci sarà questo regime». Per quel che lo riguarda, Khaled Khalifanon se ne andrà mai da Damasco, dalla Siria.

«Questa è casa mia, sono loro che se ne devono andare, io resto».

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