Armi: altro che affare, è un mercato “incapace di generare utili”

L'industria delle armi non sa sostenersi economicamente senza aiuti pubblici. Tanto meno è in grado di dare una spinta all'occupazione. Né è capace di aiutare la crescita tecnologica del settore civile. Lo sostiene il professor Raul Caruso, che oggi interviene al Festival dei diritti umani di Milano per svelare come il mercato abbia creato cortocircuiti nel mondo degli armamenti

Economicamente insostenibile senza sostegno pubblico. Incapace di generare utili e di impiegare un numero adeguato di persone. Tanto avanzata sul piano tecnologico, quanto costretta a mantenersi chiusa, protetta dal segreto militare. Questo è il vero volto dell’industria delle armi secondo Raul Caruso, professore di Economia internazionale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e direttore esecutivo del Network of European Peace Scientists.

Oggi, 3 maggio, Caruso interviene al convegno “Missiles, drones and money: il mercato delle armi e il suo controllo” nell’ambito del Festival dei diritti umani di Milano, di cui Osservatorio Diritti è media partner (l’evento comincia alle 16 nel Salone d’onore della Triennale). Un incontro dove svelerà alcune delle bufale ricorrenti che l’industria mette in circolazione per giustificare la sua esistenza.

Raccontano «favole», dice Caruso, dietro cui si nascondono delle profonde contraddizioni. Si dice, ad esempio, che l’industria degli armamenti è sempre fiorente e che impiega molta manodopera degli Stati. Non è così: «Checché se ne pensi, le armi servono sempre meno nel mondo. A volte si dice che vengono vendute per “sicurezza”, ma la realtà è che l’industria deve scommettere sulle guerre, ma il mondo è molto più pacifico rispetto agli anni passati, con tutte le eccezioni del caso».

«Se in Italia – prosegue – si sommano tutti i dipendenti di Leonardo, Fincantieri, Piaggio e gli altri grandi attori del settore con interessi statali, il numero di impiegati è 50 mila. Un numero ridicolo in un Paese con una forza lavoro composta da circa 25,5 milioni di persone».

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Raul Caruso, ricercatore di Scienze politiche all’Università Cattolica di Milano e direttore esecutivo del Network of European Peace Scientists

Costi alti e listino prezzi proibitivo: il mercato delle armi

Da oltre 20 anni nel mercato degli armamenti è in pieno svolgimento la corsa alla tecnologia. C’è sempre maggior domanda di progresso e di ricerca, con conseguente innalzamento dei costi. Ma per fatturare le aziende hanno bisogno di vendere. Prezzi sempre più proibitivi, specialmente per singoli attori nazionali richiederebbero un nuovo paradigma: attori sovranazionali che acquistino e che vendano.

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«Il mercato ha creato la situazione paradossale in cui Paesi alleati si rincorrono per vendere prima una stessa tecnologia», dice Caruso. Dimenticandosi spesso di fare agli acquirenti un’adeguata due diligence, ovvero tutti i controlli del caso. È così che gli armamenti finiscono nelle mani di dittatori. È così che insistono in zone di crisi, continuando ad alimentarle.

«Soprattutto in Europa ci sono sempre gli Stati di mezzo. Da un lato, dovrebbero tendere alla pace e alla stabilità, ma dall’altro i manager delle loro aziende di armi devono scommettere sulla guerra per fare profitto».

La corsa tecnologica, peraltro, ha reso la competenza un bene da vendere. Il meccanismo è quello degli offset, delle compensazioni, spiega Caruso: un’azienda sigla una maxi-commessa con un Paese a patto che parte della produzione sia fatta in loco. «E con il lavoro si trasferiscono anche competenze», commenta. Questo paradossalmente rende più fragili, visto la caduta dei blocchi contrapposti e l’esistenza di relazioni diplomatiche sempre più intricate. Peraltro il meccanismo degli offset serve anche agli acquirenti, che possono raccontare alla loro opinione pubblica che con le armi hanno comprato anche lavoro. Un’altra informazione scorretta.

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Aerei da guerra

La vendita di armi è un fatto di tipo politico

Leonardo è uno dei primi dieci gruppi industriali del comparto difesa. Eppure, ricorda Caruso, come hanno detto diverse agenzie di rating in caso di condizioni di mercato avverse, non sarebbe in grado di ripagare i propri creditori. Eppure lo Stato continua ad esserne azionista, a impegnarsi con tutto il suo complesso diplomatico per garantire nuove commesse.

«Nell’economia moderna non conta nemmeno più tanto se un’azienda è in utile o in perdita», dice Caruso. «Quello che conta è il suo andamento in Borsa». Così anche la fragilità legata a conti a volte non in ordine viene sopperita dall’intervento diretto dello Stato, che si impegna per primo.

L’altro cortocircuito è che la vendita delle armi è regolata da normative sull’export. «Ma se Leonardo violasse una qualche legge, come possiamo chiedere che lo Stato sua azionista intervenga?», si chiede il professore. È un circolo vizioso che si alimenta inoltre con l’enorme tasso di competizione del settore.

Per di più la buona riuscita o meno di una commessa non è solo condizionata dalle scelte economiche. Primariamente è un fatto politico. Sono tanti i casi di scandali o cambi di governo che hanno portato a stralciare un contratto. Con conseguente caduta del titolo in Borsa e nuove spese per lo Stato-azionista.

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Aereo da guerra

Armi: il falso mito dell’aiuto al settore civile

Per anni il comparto delle armi ha raccontato che con il suo avanzamento tecnologico ha spinto oltre anche il comparto civile. «Ormai ci sono tanti scienziati in altri settori che possono promuovere il civile. Non vedo come la tecnologia di un missile aria-aria possa essere utile ad altro».

Eppure, nonostante tutte le loro fragilità, gli Stati continuano a restare all’interno delle industrie delle armi. Sono al contempo azionisti ed enti regolatori delle esportazioni, con evidenti conflitti di interessi. «Se Leonardo o un’altra partecipata pubblica europea dovesse violare delle leggi nazionali o internazionali sull’export degli armamenti o sulla gestione di una commessa, come possiamo chiedere allo Stato-azionista di bloccare l’azienda?», si chiede ancora Caruso.

Secondo il professore servirebbe una gestione sempre più sovranazionale del mercato, con organismi internazionali che dovrebbero monitorare il suo funzionamento. Ma non c’è ancora abbastanza maturità per farlo.

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3 Commenti
  1. Antonio dice

    Se, come scritto “L’industria delle armi non sa sostenersi economicamente senza aiuti pubblici” a chi vanno i 530 miliardi di profitti fatturati dalle prime 10 industrie di armi? I guadagni di Leonardo, Fincantieri e altri vanno allo Stato?

  2. Monica Bruni dice

    Non è vero che il mondo è più pacifico rispetto agli anni passati!. Che sia proposto a tutte le nazioni di compilare un dossier armi fatto bene, perchè penso che esse siano da bandire in tutti i casi, anche dalle case degli italiani e degli statunitensi, se non per motivi di difesa della propria persona e della propria “storia passata e presente”. Troppe armi date in mano a gente inerme ed è inutile insistere a dire “Avanti” come nel fascismo! Più pace, più aiuti umanitari a casa propria, dovunque un individualità esprima il suo essere umano e religioso, e meno fake news!

    1. Monica dice

      E’ proprio la difesa della propria persona che gli americani chiamano in causa per giustificare l’uso domestico delle armi. con i risultati disastrosi che ben conosciamo.

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