L’Onu accusa Israele: sfrutta illegalmente i Territori palestinesi

Un nuovo report delle Nazioni Unite accusa Israele di stare violando i diritti umani in Palestina sfruttando illegalmente le risorse naturali presenti. A preoccupare è innanzitutto la situazione nella Striscia di Gaza, ma vari rilievi interessano anche la Cisgiordania e Gerusalemme Est

In campagna elettorale “King Bibi”, come viene chiamato Benjamin Netanyahu dai suoi sostenitori, aveva promesso di estendere la sovranità israeliana sulla Cisgiordania. Aggiungendo di non essere intenzionato a fare differenze tra l’annessione di grandi aree e insediamenti isolati. Parole che, se realizzate davvero, spazzerebbero via definitivamente ogni possibilità di istituire uno Stato palestinese autonomo in Cisgiordania. E che oggi preoccupano ancora di più, perché Netanyahu, alla fine, ha vinto le elezioni parlamentari del 9 aprile e ha già ottenuto l’appoggio della maggioranza dei parlamentari per la formazione di un nuovo esecutivo.

A questo punto sembra prospettarsi un nuovo braccio di ferro con le Nazioni Unite, che giusto qualche settimana fa ha chiarito che lo Stato d’Israele non è autorizzato a fare ciò che vuole nei Territori palestinesi. A partire dall’uso delle risorse naturali, materia in cui esistono regole ben precise che Tel Aviv sta violando. «Lo sfruttamento israeliano delle risorse palestinesi è una violazione dei diritti umani», ha detto un esperto dell’Onu.

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Susya, Cisgiordania – Foto: Irene Masala

Onu denuncia lo sfruttamento di risorse in Palestina

Il relatore speciale delle Nazioni Unite, Michael Lynk, ha affermato in un report pubblicato il 18 marzo dall’Ohchr, l’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu, che lo sfruttamento da parte dello Stato di Israele delle risorse naturali presenti nei Territori palestinesi occupati rappresenta una diretta violazione delle responsabilità legali che derivano dall’essere una potenza occupante.

Durante la presentazione del report a Ginevra, davanti al Consiglio per i diritti umani, Lynk ha sottolineato le difficoltà quotidiane di quasi 5 milioni di palestinesi nell’accesso all’approvvigionamento idrico e allo sfruttamento delle risorse naturali presenti in quei territori.

Per quanto riguarda, nello specifico, le ricchezze naturali del territorio occupato – che comprendono risorse idriche, risorse naturali finite e rinnovabili, oltre al suolo e all’ambiente – la potenza occupante deve assumere una serie di responsabilità legali specifiche. Tra queste, nei punti 29 e 31 del documento si evidenzia come Israele abbia diritto a un uso limitato delle risorse pubbliche palestinesi e solo come “amministratore e usufruttuario” provvisorio, secondo quanto stabilito dall’articolo 55 del Regolamento dell’Aia del 1907. La potenza occupante perciò non ha alcuna autorità legale per lo sfruttamento di risorse e proprietà presenti nel territorio occupato a vantaggio della propria economia.

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Israele, una storia di occupazione: i punti critici oggi

Tra le principali criticità evidenziate da Lynk c’è la situazione di Gerusalemme Est, con quasi 200 famiglie palestinesi a rischio sfratto, e lo status del Mar Morto, zona ricchissima dal punto di vista naturale e minerale, da cui Israele ricava profitto vietandone lo sfruttamento delle risorse ai palestinesi.

La Striscia di Gaza è quella che desta le maggiori preoccupazioni: con oltre il 96 per cento delle falde acquifere inadatte al consumo umano, l’acqua è ormai il simbolo della sistematica violazione dei diritti umani dei palestinesi. Diversi milioni di persone soffrono infatti di carenza d’acqua causata da contaminazione o mancanza di accesso alle fonti idriche, poste sotto il controllo israeliano dal 1967. Nel 1982, inoltre, la proprietà di tutti i sistemi di approvvigionamento idrico della Cisgiordania fu assunta dalla Mekorot, la compagnia idrica nazionale israeliana.

Infine la questione delle cosiddette “zone di sacrificio” interne alla Cisgiordania, dove il governo israeliano smaltisce parte dei propri rifiuti pericolosi. Nel punto 61 del report si specifica come Israele abbia creato almeno 15 impianti di trattamento rifiuti in Cisgiordania, zona estranea al regolamento ambientale israeliano, per trattare rifiuti pericolosi come fanghi di depurazione, oli solventi, batterie e rifiuti elettronici.

Nella relazione pubblicata nel 2017 dal centro israeliano B’teselm, si sottolineava inoltre l’impatto di queste “zone di sacrificio” sull’accesso alle risorse idriche e sulla salute degli abitanti della zona.

Il report conclude affermando che durante questi cinque decenni di occupazione, Israele si è indebitamente appropriato di risorse pubbliche e proprietà private senza averne l’autorità legale, violando leggi umanitarie internazionali e i principi alla base del diritto all’acqua. Questo atteggiamento mina, secondo Lynk, ogni percorso verso l’autodeterminazione dei palestinesi e qualunque percorso verso la pace per entrambi i popoli.

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Susya, Cisgiordania – Foto: Irene Masala

Israele tra insediamenti e Convenzione di Ginevra

Ai sensi di quanto sancito dall’articolo 49 della IV Convenzione di Ginevra, alla potenza occupante è inoltre vietato trasferire una parte della propria popolazione civile all’interno del territorio da essa occupato. Atto che, secondo lo Statuto di Roma, viene considerato come un crimine di guerra.

Il trasferimento della popolazione israeliana si concretizza oggi nell’esistenza di 131 insediamenti ufficialmente riconosciuti dal governo israeliano e di altri 110 insediamenti costruiti senza ufficiale autorizzazione ma con il sostegno del governo.

Secondo B’Tselem, sarebbero più di 620 mila i cittadini israeliani che vivono all’interno dei territori palestinesi occupati: circa 400 mila in Cisgiordania e circa 200 mila nella parte Est di Gerusalemme. E stando ai dati forniti dal centro di statistica israeliano (Israel’s Central Bureau of Statistics), il tasso annuale di crescita della popolazione israeliana all’interno degli insediamenti è di 1,75 volte maggiore rispetto a quello interno a Israele: una crescita del 3,5% rispetto a quella del 2% nel territorio israeliano.

Amnesty accusa i giganti delle prenotazioni online

Amnesty International ha accusato quattro tra le principali agenzie di prenotazione online mondiali di favorire l’espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania e di trarre guadagno dai crimini di guerra. Nel report “Destinazione: occupazione”, pubblicato lo scorso 30 gennaio, si accusano Airbnb, Booking.com, Expedia e TripAdvisor di promuovere il turismo all’interno degli insediamenti israeliani e di contribuire in modo significativo alla loro esistenza ed espansione.

Airbnb era già finita nel mirino delle proteste lo scorso novembre, tanto da decidere di rimuovere dalle proprie destinazioni gli insediamenti in Cisgiordania. La decisione del colosso online aveva provocato forti reazioni da parte israeliana e statunitense, tante da far ritrattare la presa di posizione da parte di Airbnb.

Airbnb ha infatti annunciato lo scorso 9 aprile la volontà di non procedere con la rimozione dalla piattaforma delle oltre 200 case israeliane in Cisgiordania, ma di voler donare il ricavato delle future prenotazioni in quei territori a organizzazioni umanitarie internazionali.

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Cartina: la mappa di Israele e Palestina

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