Rohingya: perseguitati in Myanmar, malvoluti in Bangladesh e dimenticati dal mondo

La crisi del popolo Rohingya precipita: in Bangladesh, in un enorme campo profughi, le condizioni igienico-sanitarie sono ormai insostenibili. La comunità internazionale e l'Onu latitano. Mentre si parla con sempre maggiore frequenza di genocidio e massacro della minoranza scappata in massa dal Myanmar di Aung San Suu Kyi

di Giorgia Volpe

Le condizioni igienico-sanitarie dei Rohingya a Cox’s Bazar – il campo profughi più grande al mondo – continuano a peggiorare. Il 28 febbraio 2019, rivolgendosi al Consiglio di sicurezza dell’Onu, il segretario della Difesa di Dacca, Shahidul Haque, ha sottolineato le conseguenze socio-economiche ed ambientali che il Bangladesh sta affrontando, sostenendo che la situazione stia andando «di male in peggio». Dopo aver dato il benvenuto ai Rohingya per più di un anno, le autorità bengalesi chiedono il loro rimpatrio in Myanmar, dichiarando di non essere più nella posizione di accogliere altri rifugiati e minacciando di chiudere il confine a nuovi flussi di sfollati.

Chi sono i Rohingya: una storia di persecuzione

Considerati una «minaccia alla razza e alla religione», i Rohingya – minoranza etnica musulmana del Myanmar, paese a maggioranza buddista – continuano a subire gravi violazioni dei diritti umani.

Dal 1948, anno d’indipendenza del Myanmar, i Rohingya hanno costantemente subito diverse forme di discriminazione (mancato conferimento della cittadinanza birmana, negato accesso all’istruzione secondaria, limiti alla libertà di movimento). Ma dall’agosto 2017 la situazione sembra essere diventata molto più critica.

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Rohingya in fuga sbarcano in Bangladesh. Foto: Unicef, UN0119963, Brown

Rohingya: l’Onu parla di genocidio

Come il rapporto della Commissione d’inchiesta internazionale indipendente in Myanmar (supervisionata dal Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite – Unhrc) attesta, 700.000 Rohingya hanno trovato rifugio nel vicino Bangladesh, nei campi profughi di Cox’s Bazar.

Vittime di omicidi di massa, stupro, tortura e distruzione sistematica delle case e dei luoghi culturali nello stato del Rakhine, i Rohingya sono considerati «la minoranza più perseguitata al mondo». E secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (Unhchr) è in atto un vero e proprio genocidio, come appare dall’evidente intenzione delle forze di sicurezza birmane di distruggere, in tutto o in parte, questo gruppo etnico.

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Crisi Rohingya nel Myanmar di Aung San Suu Kyi

Il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi – alla guida del governo civile del Myanmar dal 2016 – ha smentito le accuse secondo le quali l’esercito birmano mira alla persecuzione della minoranza Rohingya, dichiarando che esso ha operato con il solo intento di neutralizzare i militanti dell’Arsa (Arakan Rohingya Salvation Army). Tuttavia, nonostante l’istituzione della Commissione consultiva sullo stato del Rakhine (guidata dall’ex Segretario generale dell’Onu Kofi Annan) e il dichiarato intento di «garantire un processo di riconciliazione tra i diversi gruppi etnici», nel dicembre 2017 il governo birmano ha negato l’accesso al relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani in Myanmar, Yanghee Lee, e a diverse Ong per fornire assistenza umanitaria. Non sorprende quindi che il rapporto dell’Unhrc lamenti che le autorità civili abbiano contribuito tramite i loro atti ed omissioni alla commissione di crimini contro i Rohingya, considerati sia dal governo sia dall’esercito immigrati bengalesi illegali e/o terroristi islamici.

In linea con le criticità espresse dall’Unhrc, il 12 novembre 2018 Amnesty International ha revocato il premio “Ambasciatore della coscienza” ad Aung San Suu Kyi, conferitole nel 2009, accusandola di non aver salvaguardato, tramite la sua autorità politica e morale, i diritti umani, la giustizia e l’uguaglianza nel suo paese.

Rifugiati Rohingya: Bangladesh minaccia chiusura confini

Ad ottobre 2018 le autorità del Bangladesh e del Myanmar hanno concluso un accordo bilaterale per il rimpatrio dei Rohingya. Ma secondo l’Onu tale rimpatrio potrà avvenire solo quando le condizioni in Myanmar saranno sicure per i Rohingya e a questi ultimi sarà conferita la cittadinanza birmana.

A livello regionale, l’Asean (Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico) è stata criticata per non essersi espressa sulla condizione dei Rohingya. Tale inazione deriva principalmente dall’osservanza del principio di non interferenza negli affari interni agli Stati membri. Infatti, essendo il Myanmar Stato membro dell’Asean, nessuna azione collettiva sarà effettuata nel suo territorio. Tuttavia, alcuni Stati membri hanno invocato l’espulsione della Birmania dall’Asean a causa dello scarso rispetto dei diritti umani.

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Rohingya a Cox’s Bazar. Foto: Unicef, UN0127199, Brown

La lentezza dell’Onu nella difesa del popolo Rohingya

La Responsabilità di proteggere è un principio di diritto internazionale adottato al World Summit delle Nazioni Unite del 2005. Esso mira a prevenire o interrompere atti classificabili come genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l’umanità. L’obbligo di proteggere la popolazione da tali atti ricade soprattutto sui singoli Stati.

Tuttavia, se lo Stato non è in grado di proteggere il suo popolo, per mancanza di capacità o di volontà, allora la responsabilità sarà assunta dalla più ampia comunità internazionale. A tal fine, quest’ultima può adottare misure diplomatiche, umanitarie e altri mezzi pacifici (embargo di armi o sanzioni economiche) o ricorrere a misure coercitive tramite il Consiglio di sicurezza dell’Onu, responsabile del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.

Nonostante numerosi report attestino l’incremento di violenza contro i Rohingya da parte dell’esercito birmano, il Consiglio di sicurezza è rimasto inattivo sulla questione durante il 2016 e la prima metà del 2017. È solo dall’inizio del 2018 che il numero di riunioni dedicate alla crisi umanitaria dei Rohingya è notevolmente aumentato.

Da una parte, il Consiglio di sicurezza ha rilasciato una dichiarazione unilaterale condannando la diffusa violenza in atto nello stato del Rakhine, invitando il governo del Myanmar ad interrompere l’uso della forza; dall’altra, il Consiglio ha riaffermato il rispetto dell’indipendenza politica e dell’integrità territoriale del Myanmar, condannando gli attacchi armati compiuti dall’Arsa contro la popolazione civile.

Ciononostante, ad oggi il Consiglio di sicurezza non ha adottato alcuna risoluzione giuridicamente vincolante in merito al conflitto né, tanto meno, si è avvalso della sua autorità di rivolgersi alla Corte penale internazionale per avviare un’indagine sui crimini commessi dalle forze di sicurezza birmane.

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© UNICEF/UN0284150/LeMoyne

La risposta della comunità internazionale

Cina prima alleata della Birmania

La Cina è un alleato di lunga data del Myanmar e rappresenta il suo più importante fornitore di armi. Dati i suoi interessi economici e militari, la Cina ha ripetutamente posto il veto per una risoluzione Onu contro il Myanmar, ritenendo che la comunità internazionale dovrebbe rispettare la sovranità nazionale e l’integrità territoriale del paese, sollecitando una risoluzione pacifica della questione.

Russia: meglio non parlare di genocidio o pulizia etnica

Dopo la Cina, la Russia rappresenta il secondo più importante alleato del Myanmar all’interno del Consiglio di sicurezza. Accusando l’Arsa di numerosi attacchi indiscriminati contro i civili, il governo russo ritiene che la comunità internazionale dovrebbe supportare il governo birmano nell’affrontare tali sfide interne, rispettando la sovranità nazionale del paese e astenendosi dall’etichettare la crisi in corso come genocidio o pulizia etnica.

Stati Uniti d’America: le pressioni sul Consiglio di sicurezza

Gli Usa condannano le forze di sicurezza del Myanmar per la violenza in corso, ma temono che l’eccessiva pressione sul governo birmano possa causare delle ripercussioni sul fragile processo di democratizzazione. Tuttavia, gli Usa hanno sollecitato il Consiglio di sicurezza a fare pressione sul governo birmano affinché riconosca la criticità della situazione e hanno sospeso la loro cooperazione militare con il Myanmar, invitando anche gli altri Stati a fare lo stesso.

Unione Europea: 5 milioni di euro per i profughi Rohingya

L’Unione Europea ha adottato un nuovo programma da 5 milioni di euro a sostegno dei profughi Rohingya in Bangladesh. L’iniziativa dell’Ue mira a sostenere l’attuazione dell’accordo bilaterale di rimpatrio tra i governi del Myanmar e del Bangladesh, contribuendo alla creazione di tutte le condizioni necessarie per il rientro volontario, dignitoso e sicuro in Myanmar.

Rohingya, alla ricerca di una soluzione definitiva

Le condizioni dei Rohingya rimangono ancora precarie e il Consiglio di sicurezza dell’Onu non sembra considerare l’interruzione di tale esodo una priorità nell’agenda internazionale. Probabilmente la miglior cosa che l’Onu può fare in questo momento è fare pressione per l’avvio di una missione umanitaria e per l’accesso degli investigatori di diritti umani nello Stato del Rakhine.

Per farlo, l’Onu dovrà sia assicurare continuità al dialogo con Aung San Suu Kyi e con l’esercito birmano, sia raggiungere un consenso con la Russia e la Cina, data la loro notevole influenza sul regime. Tuttavia, ad oggi non si intravede alcuna soluzione definitiva all’orizzonte e questo fa temere che i Rohingya dovranno essere vittime di una pulizia etnica ben documentata prima che la comunità internazionale riconosca la propria responsabilità nel proteggere tale minoranza etnica.

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