Colombia: la pace scricchiola sotto i colpi della violenza per la terra
Il processo di pace avviato con l'Accordo Farc-governo del 2016 non riesce a proteggere i difensori dei diritti umani: il numero di omicidi e massacri nei loro confronti è cresciuto del 164% in un anno. A far salire le tensioni è soprattutto il problema della ripartizione della terra. Preoccupano anche i legati tra paramilitari e multinazionali
La pace è ancora lontana in Colombia. Il numero di omicidi e massacri è cresciuto del 164 per cento nel 2018 rispetto all’anno precedente, secondo quanto riferito nell’ultimo report dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani presentato a Bogotà da Michelle Bachelet. Il documento evidenzia come l’anno scorso siano stati assassinati almeno 110 difensori dei diritti umani e si sia registrato un aumento esponenziale delle minacce e intimidazioni a persone e proprietà.
Nel 66 per cento dei casi, gli omicidi sono collegati a casi di denuncia e opposizione a sistemi criminali. Tra le questioni irrisolte che contribuiscono ad alimentare questo clima di tensione, nonostante gli Accordi di pace firmati nel 2016 da governo e Farc, c’è la questione della redistribuzione delle terre, che resta uno dei punti più problematici per comunità contadine e indigene della Colombia.
La redistribuzione delle terre sottratte dalla guerriglia o dai paramilitari durante il conflitto è stata inizialmente regolata dalla legge 1448 del giugno 2011, la quale stabilisce che chiunque abbia lasciato il proprio territorio negli anni Novanta oggi ha il diritto, se in possesso del titolo di proprietà, di riprenderlo.
Il processo di restituzione delle terre, però, non differenzia tra chi è stato minacciato, sfollato e chi ha venduto volontariamente le proprie terre. Inoltre, a complicare le cose, c’è il fatto che oltre il 40 per cento dei proprietari di terreni rurali non ha un titolo formale di proprietà.
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Colombia: l’ombra dell’Accordo di pace Farc-governo
«Quello che sta succedendo adesso è che chi nel 1997 aveva venduto un terreno a un contadino, che per i successivi trent’anni lo ha coltivato e lavorato, oggi può legalmente reclamarne la proprietà se quel terreno rientra, secondo il governo, nei terreni di restituzione», spiega a Osservatorio Diritti Monica Puto, coordinatrice del progetto di Operazione Colomba che da dieci anni accompagna la Comunità di Pace di San Jose de Apartadò (Cdp), situata nella regione dell’Urabà, una delle più colpite dal controllo delle Farc.
«La riforma della restituzione delle terre oggi non risponde all’esigenza reale di chi per anni ha vissuto nelle zone rurali, scegliendo di rimanere per difendere il territorio e per contrastare le forze armate illegali che lo stavano contendendo».
Questa prassi sta mettendo in serio pericolo l’esistenza stessa della Comunità di pace, che possiede i titoli legali solo per metà delle terre che coltiva e nelle quali vive, e di molte altre comunità contadine, indigene e di afrodiscendenti in tutta la Colombia.
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Dopo il 2016, infatti, si è registrato un incremento della presenza di paramilitari nelle zone liberate dalle Farc, soprattutto nelle regioni di Cauca e Urabà. In quest’ultima, i paramilitari appartenenti al clan del Golfo o al gruppo Autodifese Gaetaniste della Colombia (Agc), risultano spesso essere al servizio di grandi proprietari terrieri o multinazionali.
La Comunità di pace di San Josè de Apartadò
Nel contesto descritto, perché è importante l’esistenza della Comunità di pace di San Josè de Apartadò? «Perché in tutti questi territori (la Esperanza, Mulatos, la Resbalosa, la Cristalina, Arenas Blancas) è presente un insediamento, spesso composto da una o due famiglie, che fanno opposizione e denunciano le continue violenze o violazioni dei diritti umani», dice ancora Monica Puto.
«Inoltre, le colline intorno alla Comunità di pace sono ricche di carbone e oggi ci sono diverse imprese interessate all’estrazione mineraria. Il puzzle si completa se parliamo poi del mega progetto del porto di Turbo che sarà la connessione tra Oceano Atlantico e Oceano Pacifico e la porta di uscita di petrolio e oro, che al momento avviene attraverso il porto di Buenaventura», conclude.
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Colombia: disugaglianza e armi contro il processo di pace
La cartina dello sviluppo imprenditoriale e capitalista, dello sfruttamento minerario e della concentrazione di risorse naturali coincide con la presenza di attori armati sul territorio. Lo evidenzia l’ex sindaca di Apartadò, Gloria Cuartas, che ha denunciato più volte l’attuazione di un processo volto a sradicare sistematicamente negli anni la presenza dei contadini dalla regione dell’Urabà e da altre zone della Colombia ricche di risorse.
Stando allo studio realizzato da Oxfam nel 2016 e pubblicato nel report “Radiografia della disuguaglianza”, si evidenzia inoltre come l’1 per cento dello sfruttamento agricolo di grandi dimensioni occupi circa l’80 per cento delle terre, dato che rende la Colombia il paese con la peggiore distribuzione di terra di tutta l’America Latina.
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I fratelli Castaño e le terre “abbandonate” in Colombia
Caso emblematico della complessità del tema della restituzione delle terre è quello di Turbo. Un tribunale ha recentemente condannato a nove anni di prigione Teresa Gomez Alvarez, sorellastra dei capi paramilitari Castaño, per il reato di sfollamento forzato della popolazione contadina.
Il quotidiano colombiano El Espectador riferisce infatti che nel 1997 uomini del comando paramilitare sfollarono con la violenza un gruppo di contadini dal territorio di Blanquicet. Le terre “abbandonate” vennero poi comprate legalmente da un gruppo criminale, di cui Teresa Gomez Alvarez era il prestanome, grazie alla falsificazione della firma e dell’impronta digitale del rappresentante legale della cooperativa di contadini sfollati.
Nella sentenza del giudice si riconosce anche l’esistenza di un progetto criminale, attuato da parte del gruppo paramilitare Autodifese unite della Colombia (Auc) con l’obiettivo di appropriarsi di migliaia di ettari di terra in mano alle comunità contadine per sostituirle con coltivazioni intensive di palme da olio.
Già nel 2015 un tribunale speciale del dipartimento di Antioquia aveva accusato i fratelli Castaño di aver formato gruppi paramilitari per contendere i terreni occupati dalla guerriglia in occasione dell’imminente ritiro delle Farc. Durante gli scontri per il controllo di quei territori, molti contadini sono stati assassinati o sfollati e i terreni comprati da Teresa Gomez Alvarez grazie alla presentazione di documenti falsi.
Multinazionali e paramilitari in Colombia: il caso Chiquita Brands
La stretta e oscura relazione tra multinazionali e gruppi di paramilitari in Colombia è rappresentata, secondo la pubblica accusa, dal caso di Chiquita Brands. Lo scorso agosto, infatti, il pubblico ministero Nestor Humberto Martinez ha chiamato a giudizio 13 persone appartenenti al direttivo di Chiquita Brands tra il 1997 e il 2004 per aver finanziato i paramilitari dell’Unità di autodifesa della Colombia (Auc).
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Gli ex impresari, sostiene il pm, avrebbero reso possibile l’espansione del progetto paramilitare nella regione dell’Urabà e sarebbero complici di numerosi reati e violazioni dei diritti umani, tra i quali il coinvolgimento nella morte di 4.335 persone, la scomparsa di altri 1.306 cittadini e lo sfollamento forzato di 1.675 lavoratori e contadini.
La decisione del pubblico ministero è considerata storica per la Colombia perché è la prima volta che i direttivi di una multinazionale affrontano un processo. Nelle 35 sentenze emesse finora dai tribunali di Pace e Giustizia si menzionano 439 tra imprese e imprenditori accusati di avere una partecipazione diretta o indiretta nel finanziamento delle strutture armate illegali che hanno partecipato al conflitto colombiano.